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L’Alcesti e il sacrificio per l’altro: intervista a Massimiliano Civica

Una messinscena scarnificata in cui essenzialità e necessità, anche a distanza di tempo, spingono a soffermarsi su Alcesti, l’ultimo lavoro di Massimiliano Civica (leggi la recensione) che per un mese ha restituito vitalità a uno spazio non teatrale molto speciale come il Semiottagono dell’ex carcere delle Murate di Firenze. Quella di Alcesti è una storia di amore e sacrificio, di dolore, di voglia di vivere – e morire – per l’altro, una tragedia greca (a lieto fine) che Civica ha riletto e adattato per le attrici Daria Deflorian, Monica Piseddu e Monica Demuru. “Semplici” sono i concetti su cui si interroga: “una vita ha senso se si è pronti a sacrificarla per le persone che si amano”, proprio come ci spiega il regista. Semplice è il desiderio che ci ha spinto a comprendere a fondo il progetto, a incontrare e approfondire il lavoro con Massimiliano Civica a pochi giorni dal termine delle repliche, provando ad addentrarci in quello che è stato ideato come accadimento – non ripetibile altrove – e andando oltre.

Daria Deflorian e Monica Piseddu (foto di Duccio Burberi)

Daria Deflorian e Monica Piseddu (foto di Duccio Burberi)

Nella scelta di allestire l’Alcesti parli di “un gesto semplice volto a ricreare il contesto giusto dell’andare a teatro”. Come sei approdato a questo testo?
Il testo lo conoscevo già, mi piace il mondo greco, sono quindi cose che frequento e la scelta di questo allestimento ha riguardato un momento della mia vita, credo comune a tutti, in cui ho sentito il dovere e il bisogno di dire qualcosa, qualcosa in cui credo. L’unico teatro politico possibile è un teatro in cui fai una domanda sincera, in cui poni e ti poni delle domande sulle questioni eterne e persistenti dell’uomo. Oggi sono assillato da questa domanda: se debbo morire, cosa può dare senso alla mia vita?
L’Alcesti parla di morte e amore, e di sacrificio. Per molto tempo mi sono interrogato su perché faccio teatro e perché vivo, ma ho scoperto che sono domande sbagliate; sarebbe meglio chiedersi per chi fai teatro e per chi vivi. Solo quando c’è un altro ha senso vivere, solo se si smette di preoccuparsi del proprio Io e si incontra l’altro, la morte è affrontabile. L’Alcesti pone spietatamente una domanda angosciosa di senso, ci chiede di decidere quand’è che una vita ha valore, e credo, ma non ne ho la certezza, che Euripide faccia balenare una risposta che oggi suona scandalosa: una vita ha senso se si è pronti a sacrificarla per le persone che si amano.
Dire che è uno spettacolo “semplice” equivale per me a dire che è un lavoro che riposa sui fondamenti del teatro – sullo spazio, sul testo e sull’attore – e che parla di cose semplici, non per questo banali, che riguardano tutti: la morte, l’amore e la necessità di fare delle scelte. Scegliere è perdere. Non posso avere tutto, fare tutto, essere dappertutto. Non sono immortale. Debbo compiere delle scelte, e fare una scelta vuol dire perdere (veder morire, in un certo senso) tutto quello che non ho scelto. Scegliere vuol dire rinunciare a delle possibilità, ma è l’unico modo possibile di avere “una” possibilità. Oggi mi sembra che si vada invece affermando l’idea per cui non c’è niente da perdere, non è importante prendere delle decisioni perché abbiamo eternamente tutte le possibilità a portata di mano, non si deve più scegliere come vivere perché la società ha reso la morte un tabù a cui è proibito pensare; perché pensare alla morte ci renderebbe dei “cattivi consumatori”, rischierebbe di minare la bulimia da consumo che sostiene le “sorti progressive” di un mondo che sposta sempre più in là “l’ultimissima versione” dei nostri desideri e del nostro appagamento. E allora con Alcesti proviamo a dire cose semplici: c’è la morte, si devono fare delle scelte e (probabilmente) l’unica cosa che dà senso alla vita è vivere per / insieme a qualcun altro.

Al tuo lavoro di traduzione e adattamento dell’opera di Euripide, si è in seguito affiancata la presenza di grandi attrici – Daria Deflorian, Monica Demuru e Monica Piseddu – che hai definito “co-creatrici” della messinscena. Come si è sviluppato il lavoro dalle prove al Rialto Sant’Ambrogio fino all’arrivo al Semiottagono dell’ex carcere delle Murate?
Il lavoro delle prove è sempre molto intimo, è un momento in cui si ha il diritto di annoiarsi o di sbagliare. Non è successo nient’altro che un percorso molto naturale, anche poco tangente al teatro in fondo, di conoscenza reciproca tra me e le attrici.
Il loro apporto alla creazione riguarda il fatto che sono state totalmente libere rispetto al testo, non ho mai dato indicazioni sull’intonazione, ogni sera lo spettacolo è letteralmente diverso. Ho chiesto loro solo di ascoltare ciò che viene detto dal collega e di rispondere, in questo modo – stando a teatro in quel momento, con quel dato pubblico – vengono attraversate da sentimenti, da motivazioni diverse.
Per fare questo è necessario avere prima di tutto grandissime attrici, non attrici-interpreti ma attrici-artiste che ogni sera, andando in scena, si rendono disponibili agli influssi della sala e aperte rispetto al proprio percorso emotivo. Questa fiducia rispetto al fatto che qualcosa accadrà è propria solo di grandi attori.

Come nell’improvvisazione jazzistica…
È esattamente questo: hanno una partitura fisica che è assolutamente rigida, ma lascio a loro decidere il tempo e la qualità con cui compiere un determinato gesto. E non hanno alcuna intonazione prefissata. L’unica regola è quella “dell’ascolta e rispondi”. Non parlano, bensì rispondono in continuazione; solo nella risposta può esserci coerenza rispetto a una domanda fatta.

È quindi un crearsi dello spettacolo sera dopo sera ma, dal 30 settembre siamo quasi giunti al 26 ottobre (l’intervista è stata realizzata a pochi giorni dal termine delle repliche, ndr), cosa è accaduto allo spettacolo in questo mese?
Lo spettacolo è cresciuto in maniera esponenziale, è aumentata la qualità dello stare in scena delle attrici, si sono impadronite totalmente del lavoro. C’è sempre un margine di controllo ma c’è anche la possibilità di esplorare alcuni aspetti di ciò che sentono, dei loro personaggi.
È solo dopo un mese di vero confronto con il pubblico che lo spettacolo inizia ad esserci; le attrici portano ora addosso un vestito che sta loro bene, che sanno portare. Ci vorrebbe sempre questo tempo.

Alcesti Daria Deflorian Monica Piseddu 2 ph D. Burberi

Daria Deflorian e Monica Piseddu (foto di Duccio Burberi)

Come si è sviluppato il lavoro con Andrea Cavarra?
Questo è il terzo spettacolo in cui collaboro con Andrea [Cavarra ha realizzato precedentemente le maschere per Il mercante di Venezia e Un sogno nella notte dell’estate, ndr]. In questa occasione abbiamo però discusso più a lungo e più animatamente del solito, anche se poi, ascoltandoci, ognuno ha accettato di concedere qualcosa all’altro e siamo arrivati al risultato che vedete in scena.
Il punto di disaccordo nasceva dal fatto che secondo lui le maschere che chiedevo erano troppo neutre, volevo infatti che venissero lavorate solo con il colore, senza rughe di espressione. Ha insistito perché riteneva che non sarebbe bastato e mi ha chiesto di fidarmi, non avrebbe toccato le linee in senso plastico, ma – nello specifico – era importante scartavetrare il naso, le sopracciglia e la bocca. Siamo arrivati quindi a dei compromessi, ma lui è stato bravissimo. Ad esempio, ero convinto – un altro procedimento tecnico – che le maschere non andassero bitumate perché credevo che in questo modo venissero segni troppo forti. Finita la prima maschera, Andrea ha deciso di bitumarla e ha avuto ragione. È stato un lavoro di ascolto reciproco, le maschere realizzate sono state davvero frutto di un incontro tra me e Andrea.
In teatro è fondamentale una continuità di lavoro con i collaboratori, solo così si sviluppa un linguaggio comune, anche se ci vuole tempo. Io paradossalmente lavoro con Gianni Staropoli, uno dei più grandi light designer in circolazione, per chiederli ogni volta solo un piazzato bianco… Avere Gianni, un poeta della luce, solo per fargli fare un piazzato bianco fisso sembra un’assurdità, ma lui negli anni ha compreso cos’è per me il piazzato e lo fa in maniera incredibile, senza il “suo” piazzato bianco i miei spettacoli perderebbero moltissimo; è un artista che ha imparato a capirmi, tra noi c’è una dialettica in corso. Lo stesso è accaduto con la costumista [Daniela Salernitano, ndr]: loro sanno perfettamente ciò che voglio, ma lo fanno meglio di come io possa dirlo o anche solo pensarlo.

Durante la visione dello spettacolo mi ha colpito molto il lavoro sullo spazio scenico: dalla costruzione di forme geometriche nei movimenti delle attrici, il tracciare quadrati invisibili a terra dei loro passi, fino alla ritualità della vestizione a vista. Giuseppe Distefano, in una recensione allo spettacolo (leggi l’articolo), fa riferimento ad alcuni elementi del Teatro Nō: possiamo relegare questi elementi a un livello di suggestione personale o ne sei stato in qualche modo influenzato?
È una vostra suggestione [sorride, ndr]. Secondo me ha centrato molto bene la questione Attilio Scarpellini (leggi l’articolo): è come se fosse un rito sognato, immaginato. Cerco di costruire una situazione rituale ma, visto che il rito del teatro è perso, quello che accade in scena è un rito da me inventato che può sembrare che faccia riferimento a una struttura tradizionale preesistente, ma che in realtà è solo un’invenzione.
E in questo rito da me sognato non c’è mai un solo riferimento: ad esempio, il comodino da cui le attrici prendono le maschere, se, da un lato, rimanda alla cerimonia eucaristica, dall’altro rimanda al rito dell’attore che in camerino diventa personaggio. Si ha l’impressione di un riferimento a una ritualità preesistente perché al suo interno il sistema che creiamo è coerente, le sue parti si rispondono reciprocamente, e questa compattezza fa pensare che sia stato “copiato” o tolto di peso da una qualche tradizione spettacolare. Ma in realtà non ci sono più riti, e allora ognuno deve inventarsi il suo.

Daria Deflorian, Monica Piseddu e Monica Demuru (foto di Duccio Burberi)

Daria Deflorian, Monica Piseddu e Monica Demuru (foto di Duccio Burberi)

Credo che lo spettacolo sia talmente aperto e chiuso insieme, che riesce a volte a far accedere al piano del simbolico; questo comporta che ognuno possa vederci quello che vuole, perché c’è coerenza del sistema ma non c’è chiusura in un riferimento unico.
Rispetto al “disegnare quadrati a terra” a cui si può pensare nel momento in cui le attrici entrano (o escono) in scena, questo accade invece perché abbiamo ricreato i tre ingressi tipici del teatro greco: al centro c’era la porta del palazzo mentre ai lati c’erano i parodoi, gli ingressi in scena per coloro che arrivavano dalla città (a destra) o da lontano (a sinistra). Le attrici entrano in scena o escono dalla “porta del palazzo” segnata dai due candelabri ma, se arrivano da qualche luogo esterno, entrano salendo dal lato corto della pedana: non ho fatto altro che ricostruire il sistema del teatro greco, motivo – tra gli altri – che mi ha spinto a scegliere proprio lo spazio del Semiottagono.
Ci sono poi tanti altri elementi che si mischiano. È curioso come per l’uso delle maschere in tanti abbiano parlato di Commedia dell’Arte anche se i loro colori seguono l’uso del teatro greco (personaggi nobili con maschera bianca, servi con maschera marrone e divinità con maschere colorate) e i dialetti parlati dai servi, il sardo e trentino, non hanno nulla a che vedere con i dialetti propri della Commedia all’improvviso.

“Essere dappertutto senza fare alcuna scelta”. Questa è solo una delle considerazioni sulle quali si fonda il progetto Alcesti. Pensi sia possibile – e, se sì, come – scindere lo spettatore dal mercato teatrale? Ovvero, l’opposizione alla tournée può tenere sullo stesso piano la visione bulimica imposta dai festival e la possibilità del singolo di fare una scelta? È anche questo un sacrificio?
L’Alcesti è una cosa piccola che abbiamo deciso di fare a Firenze.
Una volta Thomas Richards mi fece una domanda semplice e geniale, mi chiese: “Ma tu di quanti spettatori hai bisogno per essere felice?”. Non è al successo, al numero di spettatori che abbiamo, al numero di repliche che facciamo che possiamo delegare il senso del nostro fare teatro.
Nel teatro all’antica italiana, quando uno spettacolo andava bene, non si diceva che era stato un successo, ma che era stato un “incontro”. Si diceva: “lo spettacolo ha incontrato”. Il fatto che lo spettacolo sia stato visibile solo a Firenze, in un luogo speciale che non è un teatro, e che sia stato fatto solo lì per un tempo definito, tutto ciò ha aiutato lo spettatore a entrare in una qualità d’ascolto non usuale. Lo ha reso più disponibile “all’incontro”. Il teatro è un’arte transeunte e dovremmo arrenderci a questo. Nel suo essere mortale, il teatro è il grande antidoto all’illusione dell’assenza della morte nel mondo contemporaneo.
Una tournée non avrebbe poi senso: ogni dettaglio dell’Alcesti è stato ideato per uno spazio specifico, ad iniziare dai colori dei costumi e delle maschere, che sono stati progettati e realizzati in armonia con i colori del Semiottagono. Creare tutto questo, nel rispetto della struttura architettonica, ha richiesto molto tempo. Un altro luogo darebbe vita a un nuovo allestimento e a un altro spettacolo.
Quando mi si rimprovera di non voler mandare in tournée questo spettacolo, si scambia la causa con l’effetto: è proprio perché, per una compagnia indipendente, è impossibile far girare uno spettacolo, che abbiamo pensato al progetto dell’Alcesti a Firenze.
Voglio poi dire un’ultima cosa. Alcuni operatori e direttori di teatri mi accusano di “voler sottrarre ad un pubblico più ampio” uno spettacolo così bello. Ebbene sono le stesse identiche persone a cui, circa due anni fa, mi sono rivolto per un aiuto produttivo e da cui mi sono sentito rispondere che ero fuori dalla realtà teatrale se pensavo che al pubblico potesse interessare una tragedia greca con, per giunta, gli attori che recitavano in maschera. In pratica, le persone che mi hanno costretto in un angolo, ora mi rimproverano di starmene in un angolo! Tutto ciò, oltre che paradossale, non è anche offensivo?

Intervista a cura di Elena Conti

“Alcesti”: geometria, essenzialità, politica

Recensione ad Alcesti – regia di Massimiliano Civica

Simmetria e geometria

Semi-ottagono dell'ex Carcere delle Murate (foto di Duccio Burberi)

Semi-ottagono dell’ex Carcere delle Murate (foto di Duccio Burberi)

Due donne, due mobiletti, due candelabri enormi. Al centro, una pedana quadrata di poco rialzata che funge da palco. Si potrebbe dire, un ambiente in qualche senso domestico, monumentalmente domestico, in ogni caso privato. Racchiuso nello spazio del semi-ottagono del fiorentino ex Carcere delle Murate, una specie di piccolo scrigno dal soffitto altissimo contornato da una serie di balaustre che si perdono a vista d’occhio, per la prima volta utilizzato come luogo di spettacolo, l’Alcesti firmato da Massimiliano Civica e interpretato da Daria Deflorian e Monica Piseddu, insieme a Monica Demuru, è un lavoro di grande simmetria e di rigorosissima geometria. Tutto è incardinato su un disegno fondato sull’alternanza fra frontalità e profilo, fra verticale e orizzontale, che trova forza nell’ortogonalità espressa dalle azioni e dai movimenti. La simmetria che scandisce le entrate, gli incontri, le uscite delle attrici; che governa l’impostazione dello spazio scenico, con la coppia di mobili e di candelabri; che segna le azioni delle attrici, gli accessori che definiscono i diversi personaggi, le maschere. Queste scelte fondate sul doppio e sullo specchio – come a dire, forse, “cosa faresti al posto mio?” – sembrano riverberare non poco degli orientamenti strutturali definiti dalla affascinante architettura che racchiude lo spettacolo.

Nello spazio non c’è nulla di tutto quello cui si fa cenno nel testo: non la camera da letto in cui si dispera Alcesti, una volta venuto il momento della sua morte; non l’atrio del palazzo, il tempio della cerimonia, le cucine dove si confrontano i servi. Tutto si fonda su un copioso fluire verbale, magistralmente modulato attraverso piccole variazioni, e sulla presenza magnetica delle attrici, che creano una messinscena di potente fascino.

Minimalismo e astrazione
Il testo fluisce in un eloquio minimale, costruito di norma su lievissime e calibrate variazioni di tono e colore. Il tutto si svolge fra Deflorian e Piseddu, che in scena hanno il ruolo di evocare tutti i personaggi della tragedia: Alcesti e Admeto, il padre di lui, i servi, gli dei. Basta un piccolo dettaglio, il cambio di un accessorio, per concretizzare nello spettacolo il passaggio fra una figura e l’altra, una situazione e la successiva: Daniela Salernitano ha scelto per le due attrici gli stessi abiti (un paio di jeans, scarpe alte, una maglia nera e una tunica marrone), ma basta un batter d’occhio perché si mutino nel re e nella regina (il primo con una sottile collana di cerchi bianchi, l’altra con un filo di pietre rosse, stessi colori per le rispettive cinture), in Ercole e un cuoco (il dio tutto in rosso, il servo con un grembiule e un berretto), in Apollo e la Morte (il loro confronto, fatto solo di sottili bastoni tesi nel vuoto, sembra immobile, come estratto da una delle pitture vascolari classiche). Le maschere create da Andrea Cavarra, di una forte semplicità, con pochi tratti segnati e una matericità marcata, contribuiscono sia alla definizione delle figure in scena che alla loro scarnificazione rispetto alla dimensione umana, escludendo qualsiasi caratterizzazione mimica.

Daria Deflorian e Monica Piseddu (foto di Duccio Burberi)

Daria Deflorian e Monica Piseddu (foto di Duccio Burberi)

Lo spettacolo è scandito da dialoghi di preciso rigore, che di norma non coinvolgono più di due figure per volta, contrappuntati dalle entrate e uscite (dalla pedana, non di scena) delle attrici, anche queste disegnate con una precisa geometria: fra un’azione e l’altra raggiungono il proprio “armadietto” e, di spalle, trovano nei suoi cassetti e nei suoi scaffali le maschere, le cinture, le collane e i bracciali che definiscono i diversi personaggi. Questi momenti di pausa, spesso di silenzio, in cui il personaggio si “costruisce” sempre davanti agli occhi degli spettatori, costituiscono dei passaggi altrettanto portanti quanto quelli in cui si svolge l’azione scenica in senso stretto; come se questa regia fosse un’operazione anche plastica e scultorea, che lavora al trattamento dei vuoti e dei pieni dello spazio-tempo in cui si compie lo spettacolo.

Il minimalismo che distingue i lavori di Massimiliano Civica si esprime anche nella codificazione di una gestualità minima di grande efficacia: bastano due colpi di polso per suggerire un’uscita di scena, una testa appoggiata sulla spalla per richiamare il pianto e la disperazione; una promessa è una stretta di mano e la morte di Alcesti si concretizza nella cessione della maschera della regina al suo re.
L’astrazione dei gesti, di immediata comprensione, e in generale delle azioni ridotte al limite, rende entrambi allo stesso tempo leggeri, di rara delicatezza e precisione; diventano quasi coreografia, liberati in parte tanto dal dovere significante quanto dalla norma della comunicazione quotidiana (anche teatrale) del chiacchiericcio, della sovrabbondanza, dello spreco di parole, gesti, azioni.

Quello che resta di Alcesti
Nervi tesi, parole di un peso specifico inconcepibile che però tagliano lo spessore dell’aria con acutezza, così come le pause e i silenzi, una scena scarna e una gestualità ridotta all’osso; con il contrappunto di qualche nota volutamente stonata, che vira la purezza del materiale (testuale, sonoro, scenico, attoriale) verso imprevisti orizzonti espressionistici, come ad esempio nelle inflessioni delle lingue parlate dai servi e nel canto osceno di Ercole (incoronato di fiori visibilmente finti, prova a sedurre una serva cantando sempre più sincopato L’oselin de la comare); in alcune quasi impercettibili mosse guerresche che all’inizio vedono fronteggiarsi Apollo e la Morte (fra il cartone animato e Matrix, per intenderci) o nel finale affidato a Henna di Dalla; o infine, emblematicamente, nel ruolo del coro (interpretato da Monica Demuru), che guarda come noi lo spettacolo, si sposta a volte sedendosi a terra altre appoggiandosi alla parete, lo commenta, in altri casi lo accompagna con una partitura vocale fatta di fiati.

foto di Duccio Burberi

foto di Duccio Burberi

Su questi elementi si fonda questa versione della tragedia euripidea, spogliata delle incrostazioni che sono proprie dell’abitudine teatrale (di questo testo e in generale). Così scarnificata, torna in scena in tutta la complessità che, con la storia di Alcesti, ha attraversato i secoli: un’ambiguità che si irradia dal cuore stesso della tragedia e che è diventata esempio emblematico dell’impossibilità di comprendere e giudicare l’altro. Admeto ha una grande opportunità: scampare alla morte grazie all’intercessione del dio Apollo; ma – questo è il patto – qualcuno dovrà morire al suo posto. Il sacrificio non è compiuto da un suddito qualunque o dagli anziani genitori del re (cui pure è stato chiesto), ma dalla giovane Alcesti, moglie del re e madre dei suoi figli.

È straziante il dolore di Alcesti, costretta alla morte prematura; quello di Admeto, che dovrà privarsi della cara moglie; quello dei loro figli e dei servi. Eppure le cose non sono così semplici, basti pensare alla coinvolta auto-difesa espressa dal padre del re, che lo accusa di essere un vigliacco e spiega la propria voglia di vita; al fatto che ognuno pensa per sé, valutando il proprio dolore più grande di quello altrui; alla effettiva miseria di Admeto, sopravvissuto alla moglie ma destinato alla solitudine, o alle possibili ragioni del sacrificio di Alcesti.
Si potrebbe pensare, guardando a come vanno le cose, che Alcesti sia una tragedia a lieto fine (perché Ercole scende nell’Ade a recuperare la regina e la restituisce ad Admeto). Ma, ancora, la questione non è così lineare. L’univocità della prospettiva individuale ha la meglio su tutto ed è impossibile stabilire con certezza chi abbia ragione o torto, il giusto e lo sbagliato: ognuno ha le sue motivazioni, le esprime; non si dà mai mediazione, incontro, compromesso, ma una serie di punti di vista che possono soltanto giustapporsi.

Questa è una storia di amore, sacrificio, morte: tutti tabù che la società odierna tende a rimuovere o quanto meno ad allontanare, a disinnescare, addomesticandoli, rendendoli liquidi. In questo spettacolo, invece – forse proprio per via del minimalismo con cui si concretizza –, risaltano con forza. E sono accompagnati da un lavorìo di ambiguità e complessità che è difficile districare una volta per tutte; a cui, forse, ci si deve semplicemente abbandonare, riconoscendo la limitatezza della comprensione umana, della possibilità individuale di giudizio, della relatività delle motivazioni e delle scelte di ciascuno (ma, allo stesso tempo, senza abdicare a queste responsabilità, ma cogliendo il proprio piccolo e mobile punto di vista nel mondo in cui si vive, nelle azioni che si vedono e nei fatti di cui si è partecipi).

foto di Duccio Burberi

foto di Duccio Burberi

Essenzialità, necessità, teatro
Essenzialità, necessità sembrano le coordinate capaci di diventare chiavi per entrare almeno in parte in questo nuovo lavoro firmato da Massimiliano Civica e, di conseguenza, nel mistero di una delle più strazianti storie d’amore di sempre, della disumanità dell’uomo e allo stesso tempo della dedizione integrale all’altro che rappresenta.

Ma Alcesti è un progetto particolare e questo dato di necessaria essenzialità si rivela utile anche su altri livelli: non è solo una creazione sulfurea nel suo lancinante minimalismo, che, disincarnando la tragedia troppo umana per eccellenza, può farla tornare a parlare con immediatezza.
È uno spettacolo per pochi spettatori, una ventina, che fra settembre e ottobre si è svolto ogni sera per circa un mese in un luogo poco conosciuto di una capitale dell’arte e della cultura come Firenze. Lontano dal chiasso del turismo e anche del mondo del teatro, ad ogni replica ha chiamato a raccolta una piccola comunità di persone, invitate ad accomodarsi su poltroncine disposte in riga davanti alla scena, in uno spazio raccolto, quasi intimo, di grande suggestione architettonica. Nessuno che copre la visione, difficilmente qualcuno che distrae, la compressione della piccola sala rende l’atmosfera quasi materica; nessuno spettacolo prima e dopo (per quanto riguarda gli addetti ai lavori, abituati a tour de force di più messinscene in una serata). Soltanto Alcesti, le sue attrici, le misurate e perciò sempre magnifiche luci di Gianni Staropoli, il fondo neutro, le parole che tagliano l’aria.
Massimiliano Civica ha voluto dare vita a un progetto scenico senza l’intenzione di farlo girare, così il suo Alcesti diventa anche un intervento politico rispetto a un sistema teatrale che impone condizioni distributive (e di fruizione) da brivido (spazi inadeguati, condizioni al limite della legalità, programmazioni forzatamente intensive, e altre amenità del genere). Ma il progetto è dichiaratamente politico anche perché intende contestare, più in generale, le abitudini di una società ormai, secondo il regista, usa a consumare cultura e teatro passivamente, con scarsa motivazione e senza volontà di scegliere.

Si tratta di un discorso a dir poco legittimo, di spessore, fuori dal coro e per certi versi coraggioso (soprattutto nelle scelte che concretizza); lucido proprio perché così assolutamente estremo, importante nel suo integralismo che consente alle ragioni sottese di risaltare. Alcesti nasce e muore nello spazio per cui e con cui è stato creato. Però è un peccato, perché il discorso politico sviluppato da Civica intorno al suo nuovo lavoro, forse, avrebbe acquisito forza anche maggiore quanti più spettatori avrebbero avuto l’opportunità di confrontarcisi. E di andare, anche loro, per un po’, lontano dal chiasso del turismo e dello spettacolo, astraendosi dalla foga della routine, dall’ansia del consumo, dal bombardamento esasperante di offerte culturali sempre più nuove e affondando nel dramma mai completamente afferrabile di Alcesti; stando insieme ad altra poca gente, insomma, per un piccolo intervallo dal mondo e scoprire quanto può essere bello, nella sua assurda semplicità, essere vicino agli altri per vedere uno spettacolo.

Visto all’ex Carcere delle Murate, Firenze

Roberta Ferraresi