Una messinscena scarnificata in cui essenzialità e necessità, anche a distanza di tempo, spingono a soffermarsi su Alcesti, l’ultimo lavoro di Massimiliano Civica (leggi la recensione) che per un mese ha restituito vitalità a uno spazio non teatrale molto speciale come il Semiottagono dell’ex carcere delle Murate di Firenze. Quella di Alcesti è una storia di amore e sacrificio, di dolore, di voglia di vivere – e morire – per l’altro, una tragedia greca (a lieto fine) che Civica ha riletto e adattato per le attrici Daria Deflorian, Monica Piseddu e Monica Demuru. “Semplici” sono i concetti su cui si interroga: “una vita ha senso se si è pronti a sacrificarla per le persone che si amano”, proprio come ci spiega il regista. Semplice è il desiderio che ci ha spinto a comprendere a fondo il progetto, a incontrare e approfondire il lavoro con Massimiliano Civica a pochi giorni dal termine delle repliche, provando ad addentrarci in quello che è stato ideato come accadimento – non ripetibile altrove – e andando oltre.
Nella scelta di allestire l’Alcesti parli di “un gesto semplice volto a ricreare il contesto giusto dell’andare a teatro”. Come sei approdato a questo testo?
Il testo lo conoscevo già, mi piace il mondo greco, sono quindi cose che frequento e la scelta di questo allestimento ha riguardato un momento della mia vita, credo comune a tutti, in cui ho sentito il dovere e il bisogno di dire qualcosa, qualcosa in cui credo. L’unico teatro politico possibile è un teatro in cui fai una domanda sincera, in cui poni e ti poni delle domande sulle questioni eterne e persistenti dell’uomo. Oggi sono assillato da questa domanda: se debbo morire, cosa può dare senso alla mia vita?
L’Alcesti parla di morte e amore, e di sacrificio. Per molto tempo mi sono interrogato su perché faccio teatro e perché vivo, ma ho scoperto che sono domande sbagliate; sarebbe meglio chiedersi per chi fai teatro e per chi vivi. Solo quando c’è un altro ha senso vivere, solo se si smette di preoccuparsi del proprio Io e si incontra l’altro, la morte è affrontabile. L’Alcesti pone spietatamente una domanda angosciosa di senso, ci chiede di decidere quand’è che una vita ha valore, e credo, ma non ne ho la certezza, che Euripide faccia balenare una risposta che oggi suona scandalosa: una vita ha senso se si è pronti a sacrificarla per le persone che si amano.
Dire che è uno spettacolo “semplice” equivale per me a dire che è un lavoro che riposa sui fondamenti del teatro – sullo spazio, sul testo e sull’attore – e che parla di cose semplici, non per questo banali, che riguardano tutti: la morte, l’amore e la necessità di fare delle scelte. Scegliere è perdere. Non posso avere tutto, fare tutto, essere dappertutto. Non sono immortale. Debbo compiere delle scelte, e fare una scelta vuol dire perdere (veder morire, in un certo senso) tutto quello che non ho scelto. Scegliere vuol dire rinunciare a delle possibilità, ma è l’unico modo possibile di avere “una” possibilità. Oggi mi sembra che si vada invece affermando l’idea per cui non c’è niente da perdere, non è importante prendere delle decisioni perché abbiamo eternamente tutte le possibilità a portata di mano, non si deve più scegliere come vivere perché la società ha reso la morte un tabù a cui è proibito pensare; perché pensare alla morte ci renderebbe dei “cattivi consumatori”, rischierebbe di minare la bulimia da consumo che sostiene le “sorti progressive” di un mondo che sposta sempre più in là “l’ultimissima versione” dei nostri desideri e del nostro appagamento. E allora con Alcesti proviamo a dire cose semplici: c’è la morte, si devono fare delle scelte e (probabilmente) l’unica cosa che dà senso alla vita è vivere per / insieme a qualcun altro.
Al tuo lavoro di traduzione e adattamento dell’opera di Euripide, si è in seguito affiancata la presenza di grandi attrici – Daria Deflorian, Monica Demuru e Monica Piseddu – che hai definito “co-creatrici” della messinscena. Come si è sviluppato il lavoro dalle prove al Rialto Sant’Ambrogio fino all’arrivo al Semiottagono dell’ex carcere delle Murate?
Il lavoro delle prove è sempre molto intimo, è un momento in cui si ha il diritto di annoiarsi o di sbagliare. Non è successo nient’altro che un percorso molto naturale, anche poco tangente al teatro in fondo, di conoscenza reciproca tra me e le attrici.
Il loro apporto alla creazione riguarda il fatto che sono state totalmente libere rispetto al testo, non ho mai dato indicazioni sull’intonazione, ogni sera lo spettacolo è letteralmente diverso. Ho chiesto loro solo di ascoltare ciò che viene detto dal collega e di rispondere, in questo modo – stando a teatro in quel momento, con quel dato pubblico – vengono attraversate da sentimenti, da motivazioni diverse.
Per fare questo è necessario avere prima di tutto grandissime attrici, non attrici-interpreti ma attrici-artiste che ogni sera, andando in scena, si rendono disponibili agli influssi della sala e aperte rispetto al proprio percorso emotivo. Questa fiducia rispetto al fatto che qualcosa accadrà è propria solo di grandi attori.
Come nell’improvvisazione jazzistica…
È esattamente questo: hanno una partitura fisica che è assolutamente rigida, ma lascio a loro decidere il tempo e la qualità con cui compiere un determinato gesto. E non hanno alcuna intonazione prefissata. L’unica regola è quella “dell’ascolta e rispondi”. Non parlano, bensì rispondono in continuazione; solo nella risposta può esserci coerenza rispetto a una domanda fatta.
È quindi un crearsi dello spettacolo sera dopo sera ma, dal 30 settembre siamo quasi giunti al 26 ottobre (l’intervista è stata realizzata a pochi giorni dal termine delle repliche, ndr), cosa è accaduto allo spettacolo in questo mese?
Lo spettacolo è cresciuto in maniera esponenziale, è aumentata la qualità dello stare in scena delle attrici, si sono impadronite totalmente del lavoro. C’è sempre un margine di controllo ma c’è anche la possibilità di esplorare alcuni aspetti di ciò che sentono, dei loro personaggi.
È solo dopo un mese di vero confronto con il pubblico che lo spettacolo inizia ad esserci; le attrici portano ora addosso un vestito che sta loro bene, che sanno portare. Ci vorrebbe sempre questo tempo.
Come si è sviluppato il lavoro con Andrea Cavarra?
Questo è il terzo spettacolo in cui collaboro con Andrea [Cavarra ha realizzato precedentemente le maschere per Il mercante di Venezia e Un sogno nella notte dell’estate, ndr]. In questa occasione abbiamo però discusso più a lungo e più animatamente del solito, anche se poi, ascoltandoci, ognuno ha accettato di concedere qualcosa all’altro e siamo arrivati al risultato che vedete in scena.
Il punto di disaccordo nasceva dal fatto che secondo lui le maschere che chiedevo erano troppo neutre, volevo infatti che venissero lavorate solo con il colore, senza rughe di espressione. Ha insistito perché riteneva che non sarebbe bastato e mi ha chiesto di fidarmi, non avrebbe toccato le linee in senso plastico, ma – nello specifico – era importante scartavetrare il naso, le sopracciglia e la bocca. Siamo arrivati quindi a dei compromessi, ma lui è stato bravissimo. Ad esempio, ero convinto – un altro procedimento tecnico – che le maschere non andassero bitumate perché credevo che in questo modo venissero segni troppo forti. Finita la prima maschera, Andrea ha deciso di bitumarla e ha avuto ragione. È stato un lavoro di ascolto reciproco, le maschere realizzate sono state davvero frutto di un incontro tra me e Andrea.
In teatro è fondamentale una continuità di lavoro con i collaboratori, solo così si sviluppa un linguaggio comune, anche se ci vuole tempo. Io paradossalmente lavoro con Gianni Staropoli, uno dei più grandi light designer in circolazione, per chiederli ogni volta solo un piazzato bianco… Avere Gianni, un poeta della luce, solo per fargli fare un piazzato bianco fisso sembra un’assurdità, ma lui negli anni ha compreso cos’è per me il piazzato e lo fa in maniera incredibile, senza il “suo” piazzato bianco i miei spettacoli perderebbero moltissimo; è un artista che ha imparato a capirmi, tra noi c’è una dialettica in corso. Lo stesso è accaduto con la costumista [Daniela Salernitano, ndr]: loro sanno perfettamente ciò che voglio, ma lo fanno meglio di come io possa dirlo o anche solo pensarlo.
Durante la visione dello spettacolo mi ha colpito molto il lavoro sullo spazio scenico: dalla costruzione di forme geometriche nei movimenti delle attrici, il tracciare quadrati invisibili a terra dei loro passi, fino alla ritualità della vestizione a vista. Giuseppe Distefano, in una recensione allo spettacolo (leggi l’articolo), fa riferimento ad alcuni elementi del Teatro Nō: possiamo relegare questi elementi a un livello di suggestione personale o ne sei stato in qualche modo influenzato?
È una vostra suggestione [sorride, ndr]. Secondo me ha centrato molto bene la questione Attilio Scarpellini (leggi l’articolo): è come se fosse un rito sognato, immaginato. Cerco di costruire una situazione rituale ma, visto che il rito del teatro è perso, quello che accade in scena è un rito da me inventato che può sembrare che faccia riferimento a una struttura tradizionale preesistente, ma che in realtà è solo un’invenzione.
E in questo rito da me sognato non c’è mai un solo riferimento: ad esempio, il comodino da cui le attrici prendono le maschere, se, da un lato, rimanda alla cerimonia eucaristica, dall’altro rimanda al rito dell’attore che in camerino diventa personaggio. Si ha l’impressione di un riferimento a una ritualità preesistente perché al suo interno il sistema che creiamo è coerente, le sue parti si rispondono reciprocamente, e questa compattezza fa pensare che sia stato “copiato” o tolto di peso da una qualche tradizione spettacolare. Ma in realtà non ci sono più riti, e allora ognuno deve inventarsi il suo.
Credo che lo spettacolo sia talmente aperto e chiuso insieme, che riesce a volte a far accedere al piano del simbolico; questo comporta che ognuno possa vederci quello che vuole, perché c’è coerenza del sistema ma non c’è chiusura in un riferimento unico.
Rispetto al “disegnare quadrati a terra” a cui si può pensare nel momento in cui le attrici entrano (o escono) in scena, questo accade invece perché abbiamo ricreato i tre ingressi tipici del teatro greco: al centro c’era la porta del palazzo mentre ai lati c’erano i parodoi, gli ingressi in scena per coloro che arrivavano dalla città (a destra) o da lontano (a sinistra). Le attrici entrano in scena o escono dalla “porta del palazzo” segnata dai due candelabri ma, se arrivano da qualche luogo esterno, entrano salendo dal lato corto della pedana: non ho fatto altro che ricostruire il sistema del teatro greco, motivo – tra gli altri – che mi ha spinto a scegliere proprio lo spazio del Semiottagono.
Ci sono poi tanti altri elementi che si mischiano. È curioso come per l’uso delle maschere in tanti abbiano parlato di Commedia dell’Arte anche se i loro colori seguono l’uso del teatro greco (personaggi nobili con maschera bianca, servi con maschera marrone e divinità con maschere colorate) e i dialetti parlati dai servi, il sardo e trentino, non hanno nulla a che vedere con i dialetti propri della Commedia all’improvviso.
“Essere dappertutto senza fare alcuna scelta”. Questa è solo una delle considerazioni sulle quali si fonda il progetto Alcesti. Pensi sia possibile – e, se sì, come – scindere lo spettatore dal mercato teatrale? Ovvero, l’opposizione alla tournée può tenere sullo stesso piano la visione bulimica imposta dai festival e la possibilità del singolo di fare una scelta? È anche questo un sacrificio?
L’Alcesti è una cosa piccola che abbiamo deciso di fare a Firenze.
Una volta Thomas Richards mi fece una domanda semplice e geniale, mi chiese: “Ma tu di quanti spettatori hai bisogno per essere felice?”. Non è al successo, al numero di spettatori che abbiamo, al numero di repliche che facciamo che possiamo delegare il senso del nostro fare teatro.
Nel teatro all’antica italiana, quando uno spettacolo andava bene, non si diceva che era stato un successo, ma che era stato un “incontro”. Si diceva: “lo spettacolo ha incontrato”. Il fatto che lo spettacolo sia stato visibile solo a Firenze, in un luogo speciale che non è un teatro, e che sia stato fatto solo lì per un tempo definito, tutto ciò ha aiutato lo spettatore a entrare in una qualità d’ascolto non usuale. Lo ha reso più disponibile “all’incontro”. Il teatro è un’arte transeunte e dovremmo arrenderci a questo. Nel suo essere mortale, il teatro è il grande antidoto all’illusione dell’assenza della morte nel mondo contemporaneo.
Una tournée non avrebbe poi senso: ogni dettaglio dell’Alcesti è stato ideato per uno spazio specifico, ad iniziare dai colori dei costumi e delle maschere, che sono stati progettati e realizzati in armonia con i colori del Semiottagono. Creare tutto questo, nel rispetto della struttura architettonica, ha richiesto molto tempo. Un altro luogo darebbe vita a un nuovo allestimento e a un altro spettacolo.
Quando mi si rimprovera di non voler mandare in tournée questo spettacolo, si scambia la causa con l’effetto: è proprio perché, per una compagnia indipendente, è impossibile far girare uno spettacolo, che abbiamo pensato al progetto dell’Alcesti a Firenze.
Voglio poi dire un’ultima cosa. Alcuni operatori e direttori di teatri mi accusano di “voler sottrarre ad un pubblico più ampio” uno spettacolo così bello. Ebbene sono le stesse identiche persone a cui, circa due anni fa, mi sono rivolto per un aiuto produttivo e da cui mi sono sentito rispondere che ero fuori dalla realtà teatrale se pensavo che al pubblico potesse interessare una tragedia greca con, per giunta, gli attori che recitavano in maschera. In pratica, le persone che mi hanno costretto in un angolo, ora mi rimproverano di starmene in un angolo! Tutto ciò, oltre che paradossale, non è anche offensivo?
Intervista a cura di Elena Conti