recensione cesar brie

La leggerezza dei Karamazov secondo César Brie

Recensione a Karamazov – regia di César Brie

Dando inizio alla biografia del mio eroe, mi trovo in un certo imbarazzo (…) Io stesso sono consapevole che egli non è affatto un grande uomo, quindi già prevedo inevitabili domande di questo genere: (…) in che cosa è notevole per averlo eletto a vostro eroe? (…) Perché io, lettore, dovrei perdere tempo ad apprendere i fatti della sua vita?  L’ultima domanda è la più inesorabile in quanto posso solo rispondere questo: Forse lo capirete da voi leggendo il romanzo.
da I Fratelli Karamazov – premessa dell’autore

«Non dovevamo temere Dostoevskij: i suoi grandi temi dovevamo affrontarli con il sorriso sulle labbra. Perché la solennità è nemica del teatro».

Lo sa bene César Brie quanto sia difficile nel teatro prendersi in giro, deridersi, evitare di “diventare chiese”, affrontare con leggerezza certi autori o certi temi e proprio la levità, ottenuta attraverso l’utilizzo di numerosi divertissement teatrali, sembra essere al centro del contestato Karamazov, da lui adattato e diretto, reduce da grande successo di pubblico all’Elfo Puccini di Milano, prodotto da ERT come esito del laboratorio “Cantiere Brie”, il percorso di professionalizzazione da lui diretto l’anno scorso.

Uno spettacolo ridotto all’osso, ma capace di mantenere incredibilmente profondità, in cui, come il titolo suggerisce, protagonista indiscussa è la famiglia, colta nel suo insieme in chiave epico-favolistica, in un’atmosfera essenzialmente popolare, “dalla parte dei bambini”, con uno sguardo puro.

Gli elementi caratteristici della poetica di César Brie, nomade e visionario, ci sono tutti: una scena spoglia, abitata dagli attori – scalzi per eseguire al meglio il lavoro fisico – che restano sempre visibili al pubblico, ai margini di un tappeto rettangolare, (come fa notare Bachtin, Dostoevskij ambienta i momenti decisivi delle sue storie sulla soglia, in luoghi pubblici, esposti sempre, come gli attori, alla derisione e al rifiuto, in luoghi inadeguati), che entrano ed escono dal personaggio, panche che diventano banconi da bar, tombe, scranni di tribunale, capovolte – e con gli attori sdraiati – per dare un “effetto cinematografico” di visione dall’alto e poi le immancabili corde, tantissime, utilizzate per separare il “dentro e il fuori” della scena, per contendersi le grazie di una donna, e ancora fruste, lunghissime briglie, grucce per il cambio d’abito, fili per gli attori-marionette. Poi nel finale simboliche croci.

Foto di Gabriele Ciavarra, Ilaria Scarpa

Con l’andamento di una telenovela – che in effetti è tale proprio perché riprende topoi universali – Brie interpreta con il suo solito sarcasmo e l’inflessione argentina, riducendo (da 20 a 1) una materia narrativa decisamente complessa, mettendone in evidenza il lato etico, spirituale e morale: la passione e l’istinto (Dimitri), la ragione e il dubbio (Ivan),  la bontà e la purezza (Alekséj), il risentimento e la vendetta (Smerdjakov), la cattiveria, il sentimentalismo, l’egoismo e l’edonismo (Fedor il padre), la santità (lo Starets).

I protagonisti, qualcuno dalla recitazione forse un po’ acerba ma fresca, si offrono uno per volta allo spettatore accompagnati da un altro personaggio che li presenta in terza persona, alternando un umorismo in stile slapstick a momenti esistenzialistici, in un montaggio di tipo estetico più che narrativo, che potrebbe provocare non poco straniamento se non se ne comprendono le intenzioni: l’amplificazione esasperata del grottesco, quel riso smorzato, inquietante, a volte patetico, che è così presente nel romanzo di Dostoevskij e che ha influenzato fin da subito l’argentino, la carnevalizzazione del mondo, secondo la visione di Bachtin, e ancora gli aforismi di Simone Weil, filosofa rimasta nascosta dietro le quinte dell’opera, fondamentale ad esempio per la costruzione del personaggio dello stàrec.

Sostituiscono le figure infantili del romanzo tre impressionanti pupazzi-bambini, riferimento a Kantor più che al teatro di figura, muti e inermi, a rappresentare quel dolore innocente che percorre il romanzo e che Brie ha scelto come dominante: l’infanzia, vista come casa del padre, come luogo dove si fondono le personalità, in cui Aleksej ha ancora una visione del fratello Ivan e lo Starets scova un fratello dall’animo mite morto di tubercolosi.

Spiega nelle note di regia, César Brie: «I fratelli Karamazov è un romanzo anche drammaticamente visionario e anticipa l’orrore dei gulag, dei campi di sterminio, dei genocidi e la sofferenza degli inermi ritenuta da tutti un danno collaterale. Anticipa il fallimento dei grandi miti della salvezza dell’uomo che non avessero alla base l’impegno diretto e l’esercizio della pietà e dell’amore (I fondamentalismi religiosi, le sette, il socialismo, l’assolutismo, il capitalismo). Abbiamo cercato leggerezza e ironia per rappresentare questa commedia umana, tragica, farsesca e ridicola. Svelare con risate amare la nostra cocciuta idiozia».

Visto al Teatro Elfo Puccini, Milano

Maddalena Peluso

All’ombra degli alberi

Recensione a Albero senza ombraCésar Brie

Dopo un lavoro di indagine durato quasi due anni, dopo essere stato cacciato dalla sua città lo stesso giorno in cui veniva dichiarato cittadino boliviano, César Brie giunge in Italia al Festival Scene di Paglia, per raccontare gli episodi di una tragedia di cui si è fatto testimone e portatore di memoria. L’11 settembre 2008 nella profonda giungla boliviana, nella regione del Pando, decine di campesiños che andavano a manifestare per poter avere le terre che gli spettavano, vennero uccisi in un massacro che fu fatto passare totalmente inosservato. Arrivato sul luogo del disastro il regista argentino si rese conto che nessuno aveva veramente idea di che cosa fosse successo, i famigliari delle vittime chiedevano indietro i corpi degli scomparsi; delle centinaia di persone coinvolte pochissime tornarono a casa e solo undici furono dichiarati ufficialmente morti. Dalla minuziosa e pericolosa indagine iniziata due anni fa César Brie è riuscito a ricostruire, in un documentario di tre ore, gran parte dei fatti di quel terribile giorno, portando alla luce verità inespresse e scomode per entrambe le parti e lasciandosi dentro un enorme vuoto. Lo spettacolo portato in scena a Piove di Sacco non è un’inchiesta ma piuttosto quel che resta della pietas di César Brie, un atto d’umanità nei confronti di una vicenda inumana.

Albero senza ombra come fa notare Fernando Marchiori – che segue ormai da anni l’artista – è l’ennesimo monologo attraverso il quale Brie cerca di superare la crisi: durante gli anni di lavoro con il Teatro de Los Andes i ritorni al monologo sono sempre stati segno di un periodo di riflessione e riscoperta di sé. Con questo lavoro Brie – da sempre impegnato nella difesa dei valori degli indigeni boliviani – riporta in scena le vite-attraverso-la-morte di quelli che non sono personaggi di un mito, ma eroi del quotidiano. E lo fa con il suo linguaggio fatto di racconti, di colori e panni stesi, di miglio e foglie. Una scena circolare vede un Brie ancora capace di stupire con le sue performance attoriali, i fatti si avvicendano avvolgendo attore e pubblico in una spirale sempre più stretta. Brie usa linguaggio conosciuto e strutturato su metafore e allegorie, immagini frequenti e che un pubblico appassionato riconosce come stilemi della poetica dell’artista. Oggetti-pendolo, sacchi di miglio, bacinelle d’acqua, stracci e abiti, tutto diviene qualcos’altro: uomini, armi, strade, fiumi, case, bambini. La relazione attore-oggetto è sempre chiara e definita, è l’azione dell’attore che definisce l’oggetto agito e in un gesto lo violenta, lo uccide, lo salva, lo muta di significato. Brie parla e fa parlare i suoi personaggi facendosi portavoce delle loro verità con una cronaca dal respiro brechtiano, prende parola il campesiño in fuga, il boia, il soldato e il medico, tutti con la propria ragione, tutti con la loro versione della storia. Ecco allora il grande sforzo di Brie sta nel ricomporre il puzzle raccogliendo i frammenti, lo spettacolo non è dunque un’inchiesta, ma il riflesso della luce puntata su quei frammenti.

All’incontro con il pubblico condotto da Marchiori, Brie si dice non ancora soddisfatto dello spettacolo «Forse avrei dovuto parlare della ricerca, dell’indagine, di come siamo arrivati a ricostruire tutti i fatti attraverso le autopsie e le interviste». Si prospetta una possibile svolta dello spettacolo, raccontare come è stata scoperta la verità a volte può essere ancora più agghiacciante e toccante della verità stessa.

Visto a Scene di Paglia, Piove di Sacco

Camilla Toso

In bilico tra religione e affetto

foto di Mario Boccia

foto di Mario Boccia

Recensione de Il mare in tasca – scritto, diretto e interpretato da César Brie

Un piano che scivola continuamente tra finzione e realtà, tra sincerità e rappresentazione: colpisce per il carattere diretto e coinvolgente Il mare in tasca, spettacolo diretto e interpretato dall’argentino César Brie, andato in scena al Centro Culturale Candiani di Mestre. Tre personaggi, che trovano un senso nel singolo corpo del regista naturalizzato italiano, si alternano continuamente intorno a piccoli e semplici oggetti caricati di una simbologia multipla. Brie mette in atto l’espediente del metateatro, interpretando un attore che una mattina si risveglia vestito da prete, per volontà di un Dio severo che lo costringe a rappresentarne la parte. Tutto assume intelligentemente una duplice valenza: le fragili e minuscole bamboline sedute di spalle su una piccola panca diventano i credenti presenti alla delirante funzione religiosa del prete-attore; ma allo stesso tempo sono una proiezione del pubblico in sala che assiste a uno spettacolo. Palese è la voluta coincidenza della rappresentazione liturgica con la messa in scena teatrale: il regista e fondatore del Teatro boliviano de los Andes presenta la religione come qualcosa di esistente solo nel momento in cui ci si crede. Proprio come accade in teatro: lo spettatore accetta la verità della finzione, che ha senso di essere solo con la complicità del pubblico, a sua volta testimone di un sacramento. Brie crea così, in maniera irriverente e ironica, la storia di un uomo che non crede in Dio ma che è costretto a conversarci: quello descritto è un Signore troppo assente per un mondo in decadenza, ma troppo presente per piccole vicende quotidiane, che sembrano inutili, proprio come quella di un attore. Camuffato da prete, il personaggio dà vita a un divertente monologo, molto apprezzato dal pubblico, con battute che irridono il sacramento della confessione ribaltandolo e caratterizzandolo tramite laicismo: Brie assolve non solo le sue marionette da insignificanti peccati, ma anche il pubblico per l’aver fischiato Maradona o per confondere la Bolivia col Venezuela.

Come se avesse un rosario, il regista tira fuori dalla sua tasca un piccolo nastro blu, simbolo di un mare che qui si trasforma in un oggetto sacro: alludendo a una immensa distesa d’acqua, la striscia di stoffa separa l’uomo fisicamente dalla terra; una separazione spirituale che dovrebbe avvenire mentre si prega, tenendo tra le dita il piccolo strumento religioso che ricorda una collana. È un gioco che si basa continuamente su una duplice interpretazione e che lo spinge ad osare di più: si porta il nastro alla bocca, imbavagliandosi, come se quel nastro diventasse un impedimento a vivere la propria vita rimanendo attaccati alla terra e magari all’effimero.

A metà dello spettacolo, quando si è convinti di trovarsi di fronte a un teatro che parla di religione, Brie spiazza lo spettatore annunciandogli che in realtà il tema è l’amore. Convince poco questo cambio improvviso che sembra rimanga solamente una formalità: la religione continua a essere presente con l’esempio dell’affetto incondizionato che coincide con l’eutanasia, “portando il proprio amore a morire” come dice lo stesso attore. È un tema questo che nell’immaginario non può separarsi dalla religione. Proprio come la tunica da prete che il regista si toglie, ma da cui sotto ne esce fuori un’altra identica, Brie prova a camuffare la propria pièce, facendole indossare l’abito amoroso, quando sotto è sempre presente quello religioso. L’amore presente nel finale sembra però sposarsi benissimo con quel mare in tasca perché come dice il regista argentino a proposito dello spettacolo “Ognuno può vederci il proprio dolore d’amore, i resti di un naufragio. E il porto non c’ è, a meno che quest’ultimo non sia negli sguardi degli spettatori”. Sguardo che osserva l’attore-prete-uomo con affetto.

Visto al Centro Culturale Candiani, Mestre

Carlotta Tringali

Un mare di passione

Recensione de Il mare in tasca – scritto, diretto e interpretato da César Brie

© Fabbrica Europa 2009

© Fabbrica Europa 2009

Sono rari gli artisti che con sensibilità e tenacia vogliono provocare e smuovere lo spettatore e ancor meno sono quelli che riescono a farlo con abilità, cura e rispetto.

Uno di questi è l’argentino César Brie, che con Il mare in tasca apre mente e  anima sul palco, offrendo un’articolata riflessione sulla vita in teatro e non solo. Brie si presenta come un attore (se stesso) che in seguito ad un incubo – in cui vive da protagonista l’episodio del rinnegamento di San Pietro – si risveglia letteralmente nella veste di prete cattolico. Imprigionato nel nuovo ruolo comincia un dialogo con Dio (interpretato dall’attore stesso), uno scontro tra Brie e Brie, in cui viene interrogato il senso di ogni cosa: si mette in discussione l’identità dell’attore e quella del personaggio, il perché del ruolo che si svolge, l’importanza delle relazioni che si creano in scena (e come auto-ironizza César Brie rivolgendosi  a se stesso: “Hai sempre detto che il teatro è fatto di relazione. E sei qui da solo!”), e infine il cambiamento.

Quindi una riflessione sull’agire teatrale, ma anche e soprattutto una riflessione sulla vita. Vita che il teatro ha spesso la capacità di mostrare, a volte riflessa, altre volte distorta o amplificata, solitamente nell’intento di chiarire aspetti del nostro vivere. Nel caso de Il mare in tasca aspetti molto profondi, normalmente forse ignorati nella sempre più occupata e frenetica quotidianità in cui ci si immerge, dimenticando di lasciarsi il tempo per pensare. Solo un artista sensibile e acuto può far intuire e scorgere questi aspetti, sempre se però lo si ascolta con apertura. L’attore argentino si sdoppia abilmente e con grande ironia nel dialogo tra umano e divino, con provocazioni ed episodi dissacranti sulla religione cattolica, fino alla riflessione sull’aspetto sacrificale del ruolo dell’attore che con la sua professione sceglie di donarsi.

Assunto il ruolo di prete, Brie comincia ad assolvere i peccati degli spettatori: le ipocrisie, i tradimenti, le vigliaccherie e le stupidità, indicandoli, accusandoli e assolvendoli uno ad uno. Brie si investe di un ruolo nel quale esprime con ferocia  il proprio giudizio, esponendo chiaramente ed intelligentemente cosa pensa del desolante spessore umano e dell’incoerenza della nostra evoluta e civile società occidentale (e italiana in particolare).

Quando faticosamente riuscirà a togliersi la lunga tunica (una prigione fatta di bottoni) paleserà l’inutilità della snervante operazione, rivelando sotto alla veste una tunica uguale alla precedente: “Ma non è cambiato niente!” dice, forse perché umanamente tutti cerchiamo di toglierci ‘l’abito’ che ci identifica agli occhi degli altri, ma inutilmente, perché in fin dei conti siamo sempre noi stessi, sempre uguali a noi stessi.

L’interrogazione costante stimolata da Brie riguarda tutti gli ingranaggi dell’organismo teatrale: il ruolo della mente creatrice (regista-autore / Dio), la vita in scena dell’attore che sul palco nasce e poi muore ad ogni replica; fino al pubblico che l’artista argentino ricrea in scena con delle marionette sedute su una piccola panca posta di fronte a lui. I pupazzi schierati sono il pubblico, il quale, solo in quell’istante (nel vedersi rappresentato), realizza la relatività del proprio sguardo e la semplicità della propria natura composita, formata da singoli e piccoli individui che osservano. Ma Brie prende in spalla lo spettatore, vuol farsene carico, con cura, fino a rimboccargli le coperte.

César Brie in Il mare in tasca

César Brie in Il mare in tasca

L’artista con questo spettacolo affronta i fantasmi del proprio passato e dell’infanzia: così come con la religione, si imbatte nell’immagine della madre, la cui enorme veste bianca pende a destra sul palco, finché l’attore stesso  la indossa e ne interpreta così il ruolo. Lo spazio è organizzato con semplicità ed efficacia: vengono proposti pochi elementi duttili a creare  ambienti che vengono poi smontati e trasformati.  In particolare, in scena vengono utilizzate sostanze e simboli di valenza religiosa: il vino che viene versato, il grano disperso a terra, fino ad una splendida colomba bianca. Le atmosfere sono evocate attraverso la luce e soprattutto dalla bravura dell’attore.

Con un breve racconto poi, Brie riesce ad affrontare il delicato dibattito sull’accanimento terapeutico ed eutanasia:  destabilizza lo spettatore esprimendo l’assurdità del dover dare la morte a chi non è più in reale vita per permetterne la pace. Grande rabbia ed energia vengono sprigionate in una danza che è un vortice di disperazione. La performance è totalmente fusa al suo artefice che attraverso il canto, la voce e uno sguardo di fuoco, incanta.

“Cerco un porto, alla fine del mio viaggio e spero di trovarlo nei vostri sguardi.” César Brie conclude il suo racconto augurandosi di poter buttare l’àncora: così come ogni racconto e ogni viaggio hanno un inizio e una fine, così l’attore con la sua storia spera di trovare una meta negli occhi dello spettatore, di sostare temporaneamente nella loro mente attenta, magari entrare nel loro cuore e perché no, rimanere nella loro memoria.

Visto al Centro Culturale Candiani, Mestre

Agnese Bellato