Scena Verticale

Una quotidiana tragedia femminile

In occasione della sua messa in scena a Castrovillari, riproponiamo la recensione uscita qualche mese fa su La Borto a conferma che la nostra opinione non è cambiata ma anzi si è stata riconfermata nel tempo da questo fantastico autore, appena insignito del Premio Hystrio per la Drammaturgia.

Recensione a la Borto – di e con Saverio La Ruina, Scena Verticale

Madre e donna non sono sinonimi: una distorsione semantica che sembra quasi impossibile estirpare, ma che è causa di millenni di soprusi, abusi e svilimenti. In nome della continuazione della specie la donna è stata da sempre prima di tutto un involucro fertile da riempire – meglio se con figli maschi dice il proverbio. Prima ancora di avere uno statuto, una dignità, dei diritti in qualità di essere umano – e qui di nuovo i termini, apparentemente neutri, racchiudono in sé i pregiudizi più ancestrali. Perché la storia  dell’umanità è quella dell’Uomo: se è di sesso femminile va specificato.

foto di A.Maggio

Quella che racconta Saverio La Ruina come autore e interprete de la Borto ultima produzione di Scena Verticale – è, invece, la storia della Donna, di una donna, Vittoria, alla quale è stato negato di esserlo, perché da ragazzina di 13 anni è divenuta subito moglie e immediatamente madre. Senza tregua: per sette anni ha avuto un figlio al seno e un altro che già scalciava in grembo; il passare degli anni, per lei, non era scandito da dodici mesi, ma da nove. In un’atmosfera onirica ma carica di tutta la concretezza di una donna di un paese del Sud, Vittoria racconta la sua vita a Gesù: senza inibizioni o paure verso il suo interlocutore, la donna si difende dalla sottile accusa di tradimento che gli viene mossa. L’aborto entra così nella storia come atto estremo di una disperazione che abbraccia tante donne del suo paese: snaturate e svilite da troppe gravidanze non desiderate – perché i figli vanno sfamati e cresciuti, e gli uomini rispondono “arrangiati”. Un atto di atroce violenza – e a quei tempi illegale, e quindi rabberciato con metodi precari e rischiosi – che le donne si infliggono come inevitabile conseguenza di una situazione che non hanno scelto. Ma anche dopo l’approvazione della legge 194 non molto è cambiato: la giovane nipote di Vittoria, che vuole interrompere la sua gravidanza, si ritrova a dover lottare contro la cattiveria e l’incomprensione di tutti coloro che sono sempre pronti a sputare sentenze, a salire su quel pulpito sul quale lo stesso Gesù non si permette di salire dopo aver ascoltato le parole della donna. Un Gesù umanissimo e capace di quella compassione che ha predicato e che forse abbiamo dimenticato.

Grande assente di tutti i drammi narrati è l’uomo (inteso come maschio): il nero che avvolge la protagonista racconta proprio di questa solitudine totale e sofferta. Ma in scena vi è lui, La Ruina, un uomo: la forza dell’operazione sta proprio nel coraggio e nell’intelligenza di farsi voce e corpo di un’accusa mossa ai suoi simili. Con una prova attoriale soppesata nei minimi dettagli, lo straordinario interprete riesce a restituire la vigorosa fragilità della femminilità: delicata e fiera, coraggiosa e remissiva, ironica e affranta. Anche grazie all’uso del dialetto, di quella parlata viscerale e poetica della sua Calabria che rende il racconto ancora più intimo e sincero, La Ruina compone uno spartito di parole che, insieme alle esili, eclettiche ed efficaci musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco – di schiena al pubblico e al suo compagno di palco proprio per non scardinare la solitudine del racconto – cullano con dolcezza il pubblico trafiggendogli il cuore.
la Borto
diviene così una denuncia sommessa e potentissima di una società incancrenita da pregiudizi fomentati da sermoni distorti e medievali convinzioni, che riducono le donne a un’appendice degli uomini, ad un ruolo marginale e perennemente violentato della loro stessa esistenza. Un esame di coscienza che La Ruina, in quanto uomo e quindi potenziale carnefice, delinea vestendo con umiltà ed onestà i panni di una donna, alla ricerca di un’umanità che, trasalendo le distinzioni di genere, sia finalmente degna di questo nome.

Visto al Teatro G.Poli, Venezia

Silvia Gatto

Mala Magna Grecia

Recensione a U Tingiutu – un Aiace di Calabria – Scena Verticale

foto di Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

Aiace, Achille, Agamennone, Ulisse: questi i nomi dei protagonisti di U Tingiutu, di Scena Verticale, spettacolo andato in scena ieri sera al Bastione Alicorno in prima nazionale. Ma nessuna tragedia greca in versi accademicamente recitati: Dario De Luca, ideatore, drammaturgo e regista del lavoro, scaraventa l’antico mito Sofocleo nella Calabria corrosa dalla ‘ndrangheta. Sangue, onore e cocaina sono i veri protagonisti. Sgarri e vendette si susseguono all’interno di un’agenzia di pompe funebri che è anche sede di una cosca mafiosa.
La particolare costruzione drammaturgica, fortemente cinematografica – con un inizio in flashback e alcuni salti temporali -, accattiva il pubblico che – nonostante alcune difficoltà di incomprensione per l’uso del dialetto calabro – segue con trasporto questa ennesima storia di malavita. Pur intravedendola, perché, esclusa la prima scena, la quarta parete è chiusa per tutto lo spettacolo da tende veneziane. Questa tragedia moderna è sotto gli occhi di tutti ogni giorno, ma in molti devono, o vogliono, far finta di non vedere. E così lo spettatore si ritrova come ‘al sicuro’ aldilà delle tende, lontano da quel mondo che non gli appartiene, ma non può non lasciarsi coinvolgere emotivamente. Forse un assaggio di quella maledizione che, scrive De Luca, «in Calabria si chiama “contiguità”. Quella cosa terribile che costringe onesti e disonesti, mafiosi e non mafiosi a vivere fianco a fianco».

foto di Claudia Fabris

foto di Claudia Fabris

In questo racconto, oltre alle efficaci musiche originali composte da Gianfranco De Franco e Gennaro “Mandara” de Rosa, una radio accompagna le truci vicende, cantando canzonette di Pupo, Vasco e Morandi. E proprio le prime battute di una canzone di Morandi – Un’anno d’amore – assumono improvvisamente, sull’immagine della strage finale, un significato altro, che spiazza: «uno: non tradirli mai, han fede in te» – come se fosse il primo, sacro, comandamento dei clan mafiosi.

Grazie anche ai suoi colleghi di scena (Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani) – tutti decisamente all’altezza dell’impresa con un’interpretazione autentica, De Luca costruisce, con una regia semplice e genuina, quasi un film neorelista. Un bel film, che punta la macchina da presa negli angoli più bui della terra calabra, mettendo a fuoco delle verità scomode che tutti sanno e tacciono. La tragedia, così, si svuota degli eroi per narrare le vicende di una Magna Grecia tristemente più attuale, vivente, straziata da omini che non hanno decisamente nulla di eroico.

Silvia Gatto