spettacoli virgilio sieni

Itinerari da Inequilibrio 2013

La geografia – non solo da questi anni di iPhone, Google Maps eccetera – è qualcosa che si guarda dall’altro, che esclude l’osservatore e lo rende uno sguardo esterno, oggettivo, pacificamente onnisciente. “Un occhio extra-terrestre”, diceva Il viandante nella mappa di Calvino. Diversi dagli estremi di queste astrazioni sono la vita reale, l’esperienza, il viaggio: includendo il punto di vista, il vissuto, convertono la cartografia in “geografia interiore”, tengono a mente sussulti, stati d’animo e relazioni. Non si tratta solo di tracciare un percorso, da un punto a un altro, ma di sceglierlo, viverlo. Spazio e tempo si intrecciano nell’itinerario, qualcosa di dinamico e instabile che sa far incontrare passato e futuro, in cui gli orizzonti, non statici, si spostano sempre un poco più in là – a ogni passo compiuto o incompiuto, a ogni incontro vissuto.

Il Castello Pasquini di Castiglioncello, sede di Armunia

Il Castello Pasquini di Castiglioncello, sede di Armunia

L’occasione di raccontare l’edizione 2013 di Inequilibrio, festival della nuova scena che si svolge a Castiglioncello a inizio luglio, al terzo anno di direzione di Andrea Nanni, rappresenta la possibilità di calarsi negli itinerari e percorsi che sono stati tracciati, insieme, da organizzatori e spettatori in questi ultimi anni di lavoro. Guardando indietro e dunque avanti, per inseguire i fili di una storia che lega il passato di Inequilibrio ai suoi possibili futuri.
Ci sono punti, si diceva l’anno scorso (leggi l’articolo), che sembrano assumere sempre maggior consistenza col passare del tempo, fino a tracciare una mappa progettuale capace di legare un lavoro che, fra nuova scena e territorio, si sviluppa tutto l’anno, fino alla sua densa manifestazione estiva. Si tratta della costruzione di un ambiente, un ecosistema culturale modellato sugli orientamenti della direzione del Festival, ma anche sui profili e le esigenze di tutte le altre persone che vi partecipano, spettatori e artisti insieme.

Maurizio Lupinelli/Roberto Abbiati "Carezze" (foto di Lucia Baldini)

Maurizio Lupinelli/Roberto Abbiati “Carezze” (foto di Lucia Baldini)

Prima di tutto, una cura particolare per il rapporto con le geografie circostanti, con la sperimentazione di spazi altri (le pinete, le spiagge, i paesi limitrofi), spesso en plein air, come a segnare una volontà di conoscenza porosa, disponibile ad aprirsi al caso e all’incontro, di farsi esperienza unica e di cogliere l’attraversamento effimero – tipico tanto dei festival che delle località di villeggiatura, com’è Castiglioncello – per convertirlo in spazio abitabile, quando non addirittura abitato. Così, in una lunga tradizione che definisce il Castello Pasquini – strana struttura ottocentesca, un castello appunto, che domina il paese di Castiglioncello, i suoi boschi e il suo mare –, le residenze creative si sono moltiplicate e presentano i loro frutti durante la rassegna, i cui appuntamenti sono quasi tutti legati a questo tipo di contatto preparatorio. Alcuni di questi rapporti, poi, si sono consolidati col passare del tempo: molte sono le presenze che, di estate in estate, tornano a Inequilibrio, ma, complice la vocazione decisamente relazionale del Festival, qui addirittura si incontrano anche nuove forme di collaborazione, come quello che quest’anno ha legato Maurizio Lupinelli e Roberto Abbiati in Carezze o quello che ha permesso di vedere in scena Michele Di Stefano di MK, protagonista della versione “kids” di Joseph di Alessandro Sciarroni. Infine, appunto, il disegno di una programmazione molteplice, in grado di garantire l’accesso a pubblici vari e diversi, con appuntamenti per i più piccini, nuova danza e maestri consolidati, spettacoli di prosa e narrazioni inedite, mostre, incontri, performance urbane.

Folk's di Alessandro Sciarroni sul Prato del Cardellino

Folk’s di Alessandro Sciarroni sul Prato del Cardellino

Nell’edizione 2013, la scelta di spazi all’aperto, poi, proprio sul limitare della vita reale della cittadina di vacanza, delle sue serate di svago, sembra incrinare ancora di più l’idea di teatro come spazio chiuso, separato. Diverse le performance accolte dalla Pineta Marradi: l’Enciclopedia di InQuanto Teatro, costruita quotidianamente con gli abitanti del luogo, una edizione di Folk-s di Sciarroni sul Prato del Cardellino, incorniciata da un tramonto a picco sul Tirreno, le proiezioni cinematografiche all’Arena… Codice Ivan, ad esempio, ha rielaborato per Inequilibrio Tank Talk, progetto di arte pubblica disegnato sui fatti di Piazza Tienanmen del 1989: un giovane, solo, camicia bianca e pantaloni neri, si para davanti a un carro armato e lo ferma. “La rivolta è ormai un atto individuale”, recita la presentazione; ma che succede quando tante, differenti azioni individuali si sommano, si incontrano? Codice Ivan ha riprodotto per diversi giorni i movimenti del giovane cinese, provando a fermare persone e automobili; ne ha fatto una video-installazione in stazione; ha condotto, infine, un laboratorio, che come esito ha rilasciato lungo la Notte Bianca – che qui, naturalmente, è “Blu” – di Castiglioncello, le diverse versioni delle azioni di quel giovane cinese.

Ma gli itinerari possibili per attraversare Inequilibrio, quest’anno, non si fermano qui, all’ecosistema culturale che investe sul rapporto uomo-natura e apre lo spazio separato del teatro alla possibilità di incontri imprevisti; che porta il teatro nelle strade e nelle piazze, sui prati e sulle spiagge, insistendo sulla quotidianità come risorsa drammaturgica inesauribile, sull’incontro fra la grande Storia e le piccole storie di ognuno, sull’arte come opportunità di rielaborazione socio-culturale; ricombinando, insomma, i termini della sempre crescente divaricazione fra estetica e politica nell’unicità dell’itinerario individuale e collettivo di artisti e spettatori.

Codice Ivan "Tank Talk" a Gent (Belgio)

Codice Ivan “Tank Talk” a Gent (Belgio)

L’orizzonte si sposta, ancora una volta, se si vanno a tentare di inseguire le numerose relazioni, quest’anno ancora più forti e ancora di più, che il Festival ha intessuto con altre realtà. Si diceva, prima, del rapporto con alcuni artisti, che tornano ogni estate e permettono così al pubblico di seguire, volendo, gli sviluppi del proprio percorso. Caso emblematico, in questo senso, è il rapporto che lega Inequilibrio all’anomalo lavoro pedagogico di Virgilio Sieni, con la sua Accademia sull’arte del gesto: negli anni, il coreografo, ha fatto di Castiglioncello “un laboratorio attivo e unico”, entrando nelle vite (e nelle case) degli abitanti del paese – di straziante bellezza, nel 2011, Cinque nonne (leggi l’articolo), nelle abitazioni di cinque signore del luogo –, o accompagnando gli spettatori nei segreti più profondi del bosco che incornicia il Castello, con I giardinieri e le fatine; di più, qui ha inaugurato inediti percorsi formativi per giovani danzatori il cui lavoro, quest’anno, ha debuttato alla Biennale di Venezia – di cui Sieni è direttore –, per arrivare poi a Livorno, unendo il lavoro delle bambine del Gruppo Cerbiatti a quello delle giovani di Officina Caproni.

Un'immagine dal progetto "Foresta bianca"

Un’immagine dal progetto “Foresta bianca”

Fuori dall’arte performativa in senso stretto, un’altra occasione di incontro con il lavoro pluriennale svolto da Inequilibrio è rappresentanto da Foresta bianca, progetto di Matteo Balduzzi e Stefano Laffi attivo da due anni, “album di famiglia di un territorio” che racconta la storia della zona – ma anche d’Italia – attraverso foto e racconti individuali e va a concludersi quest’anno con un’esposizione a Castello Pasquini e una pubblicazione edita da Quodlibet. Negli anni passati, un gruppo di giovani è andato a incontrare gli abitanti di Rosignano e delle sue sette frazioni, raccogliendo immagini e sguardi, narrazioni e visioni fra vita privata e collettiva, esperienza individuale e dimensione sociale.

Oltre alla dimensione di relazione con artisti e progettualità, l’orizzonte si sposta di nuovo se si osservano i rapporti che Inequilibrio sta costruendo con altre realtà simili: è il caso della scena emiliano-romagnola, con la condivisione di percorsi – già presenti lo scorso anno e oggi formalizzati – con il festival di Santarcangelo e i lavori dei quattro gruppi del progetto Coda (Barokthegreat, Gli Incauti, Menoventi, Orthographe) introdotti dalla redazione di Altre velocità. Emblematico King, lavoro di Strasse: la compagnia ha abitato per diversi mesi le spiagge di Rosignano e arriverà a Santarcangelo dopo aver percorso, a piedi, la strada che separa il Mar Tirreno dall’Adriatico. Se negli anni precedenti la direzione di Andrea Nanni sembrava aver investito con decisione sui rapporti fra festival e territorio, andando a costruire ambienti dagli accessi multipli, capaci di accogliere tanto le diverse forme assunte dall’arte performativa contemporanea che la varietà dei pubblici presenti a Castiglioncello, quello che si può intuire, in questo festival 2013, più che l’ampliamento di una mappa (geografica, socio-politica, artistica), è l’esperienza della messa in opera di un itinerario. Un viaggio, più che una cartografia; un sistema di dinamiche in movimento, più che un’istantanea o un affondo: orizzonti mobili su diversi fronti, che si spostano, assieme al lavoro del festival, a ogni passo compiuto e non.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto è stato originariamente pubblicato su Doppiozero

Virgilio Sieni. La danza come antropologia

Anticipazione dell’intervista a Virgilio Sieni (Premio Speciale Ubu 2011) a cura di Simona Polvani in uscita sul quadrimestrale Il Tremisse Pistoiese, n°106, dicembre 2011

L’appuntamento è nel suo studio a CANGO Cantieri Goldonetta, Firenze. Spazio unico dedicato alla danza contemporanea, luogo di ricerca, centro di aggregazione attorno all’idea di movimento per professionisti e semplici amatori − parola che qui non sminuisce ma qualifica un desiderio e uno slancio, punto di partenza per progetti che si diramano in molti altrove, in Italia e all’estero, che diventano così più prossimi. Virgilio Sieni mi accoglie nel suo studio, un luogo in cui la luce sembra aspirata, il giallo se n’è andato. Ampi tavoli da lavoro che evocano gli studi di architettura.
Coreografo e danzatore è protagonista indiscusso della danza contemporanea europea dagli anni ottanta. Nato a Firenze, si è formato in classica e contemporanea ad Amsterdam, New York e Tokyo. Ha iniziato a danzare da adolescente quando i suoi interessi per le arti visive e per l’architettura erano già maturati ed espressi. Diventeranno referente iconografico, integrati in modo originale in un concetto di esperienza poetica di movimento e di bellezza del gesto trasfigurato. Gesto e movimento, gli ispiratori del progetto formativo e pedagogico l’Accademia sull’arte del gesto, fondata nel 2007, capace di stabilire impensabili dialoghi con il territorio.
Attento esploratore della dimensione antropologica della danza, è stato ospite dell’edizione del Festival Pistoia-Dialoghi sull’uomo 2011, dove ha presentato lo spettacolo Studies of the Human Body, un solo in cui con immensa grazia ha frammentato, accelerato, scomposto movimenti, svelando del corpo la potenzialità di una duttile plasticità e presenza ritmica.

Il suo incontro con la danza avviene da adolescente. Perché la danza e che cosa è la danza per lei?
La danza, in una forma molto nascosta, includeva tutta una serie di percorsi, legati soprattutto all’arte visiva, che all’epoca andavano ad acuire il mio desiderio. Facevo il liceo artistico, studiavo architettura e pensavo il corpo anche in una dimensione urbanistica e territoriale, non come un manufatto che costruisce un’estetica superficiale. Erano gli Anni ’70, il periodo degli happening, delle performance, della body art: mi piaceva pensare ad un corpo che potesse porsi in una forma innovativa, che potesse smarginare le dimensioni dell’apparire. Si trattava di un approccio che andava oltre ciò che allora circolava nell’ambito della danza, e che non mi piaceva affatto. Quindi, perché la danza? Perché probabilmente l’ho riconosciuta come un’arte rivoluzionaria che includeva tutti questi aspetti, dall’arte visiva all’architettura, dalla figura all’arte antica, ai saperi.
La danza è un dentro e un fuori, è scavo, fa emergere e tornare in mente tutto quanto può essere gioia e senso di liberazione, inteso anche come forma di consapevolezza. Si tratta di un atteggiamento rivolto a far sì che il corpo, più che accumulare e stratificarsi, faccia pratica di svuotamento, di leggerezza, azzeramento, come se, attraverso i propri canali, lasciasse fluire qualcosa che va a rinvigorire una presenza, lasciando spazio a un corpo attuale e vigile. La danza è tutto questo, rivolto all’atto poetico.

Nella sua opera coreografica si rintraccia una messa in relazione del gesto con il territorio. Come si configura a livello antropologico il rapporto tra gesto e ritualità legata a un territorio?
Esiste indubbiamente una forte attrazione e interesse nel conoscere persone che abitano, vivono e resistono in certi territori, nell’incontrare il loro corpo, che costituisce il loro sostrato più primordiale, adocchiarlo, scrutarlo e nutrirmi di esso. Si tratta di un approccio connesso con un’istintualità, che poi, nel suo sviluppo, si collega a interessi molto precisi, legati alle analisi del territorio. Perché quel gesto e quel corpo in quel preciso territorio, con quel paesaggio, in quell’abitazione? Perché quell’arredamento, perché quelle luci? Si tratta comunque di un interesse che è nuovamente sempre ricondotto all’idea di gesto poetico.

Un gesto poetico che può acquisire antropologicamente anche valenza politica?
Sì, il gesto come atto poetico è anche un atto politico ed economico. È un atto che cura la propria casa, creando un arco molto complesso, ingegneristico, della cura di questa casa. È un atto quindi estremamente politico, perché va a riflettere su tutti gli equilibrismi e le democrazie che il fatto di gestire il corpo include. Portare grande attenzione ai margini, ai perimetri, ossia le pelli, a tutto quello che va a sorreggere la grande struttura, la grande muscolatura, è un insegnamento importante che si lega al concetto di democrazia e ha un valore economico. Diventiamo consapevoli del fatto che le miriadi di parti apparentemente marginali − diciamo marginali semplicemente perché non sono appariscenti − in effetti compartecipano alla costruzione di un grande organismo.
Si tratta di un atteggiamento legato soprattutto a un ascolto, ma non introspettivo. È un ascolto che necessita di una grande apertura verso l’esterno. Questo ruolo è svolto dal corpo e anche dall’arte della danza sottovoce, in modo non arrogante: la danza non usa la parola vocale. Usa invece una parola per così dire sottratta. Proietta il suono negli organi, nella muscolatura, nella nervatura e agisce attraverso questa sua trasfigurazione. Anche questo è un atteggiamento importante che si ripercuote nella cultura delle persone. Basti pensare a certi popoli che danno al gesto e al corpo un’importanza primaria, dichiarata da come costruiscono le loro abitazioni, agiscono nei loro territori, stanno seduti a tavola, si relazionano all’altro, lo osservano, lo toccano. Tutto questo crea una serie di relazioni culturali, poetiche, antropologiche, ma evidentemente anche politico-economiche.

La Natura delle Cose, Oro, Ultimo giorno per noi sono tre spettacoli realizzati tra il 2008 e il 2010 che formano una trilogia, ispirati al De rerum natura di Lucrezio. Che cosa l’ha affascinata del pensiero del poeta e filosofo latino e come lo ha tradotto nel movimento della danza e nella drammaturgia?
Già dal titolo dell’opera di Lucrezio De Rerum Natura, La Natura delle Cose, intuiamo il forte incunearsi e cadere del pensiero dentro quella che è l’essenza primaria dello spostamento dell’uomo, ossia la natura: dedicargli del tempo è stato il mio primo atto. Leggendo il De rerum natura ci accorgiamo subito di come lo slancio poetico di Lucrezio aiuti l’analisi materialista della natura. Vi sono alcuni passi fondamentali, soprattutto la descrizione del clinamen, la caduta verticale dei corpuscoli che si trovano in un momento indeterminato di spazio e di tempo, che subiscono una declinazione e da questa declinazione, spostamento, si origina il senso della vita, che sempre si sposta e muta. Tutto questo ha dato origine a un’idea coreografica per me importante, in parte ereditata dal concetto del bunraku, ossia dall’arte giapponese del manovrare la marionetta, che ne La Natura delle Cose ho traslato a cinque danzatori: quattro danzatori uomini agiscono − così come i manovratori − su una danzatrice, che rappresenta Venere, la divinità attraverso cui Lucrezio narra le tematiche sulla natura. Essa viene agita dai danzatori, che la muovono secondo un sistema organico di spostamenti, spinte, pressioni e tenute molto complesso, poiché è una coreografia; allo stesso tempo la danzatrice agisce su di loro. È un modo di trasmettersi continuamente un movimento. Si tratta di creare una macchina umana poetica: un grande lavorio, un grande dispendio di energie, che procura continuamente una fuoriuscita di figure e una fuoriuscita di bellezza, potrei dire. Ecco dove il concetto apparentemente materialista di scienza, con le sue leggi, come ad esempio l’evidenza che il “corpo ha un peso, ha una sua dislocazione nello spazio, lo spazio viene spostato, la muscolatura deve essere trattenuta in una certa maniera per sostenere”, vanno a far funzionare un meccanismo di cinque danzatori. Ho cercato quindi di riportare in questo spettacolo alcuni concetti di Lucrezio legati appunto al clinamen, all’idea della materia, al seme − ogni cosa ha un seme, e così fino ad arrivare al riversarsi di una generazione in un’altra. Su questo concetto è nato lo spettacolo Oro, al quale partecipavano anziani, adolescenti, giovani, bambini, non vedenti, proprio perché Lucrezio muove una critica − altro punto fondamentale del De rerum natura − alla teoria del finalismo. Sostiene infatti che gli organi non sono stati creati per la loro funzione finale. Il non vedente ad esempio utilizza la pupilla in modo diverso, la attiva attraverso delle rotazioni per stare meglio in equilibrio: per questo motivo ho deciso che nello spettacolo ci sarebbe stato un non vedente. L’ultimo giorno per noi affronta l’ultima parte dell’opera lucreziana, ossia l’episodio della peste di Atene del 430. Lucrezio introduce un ulteriore elemento, più che poetico, umano, molto attuale: si rivolge infatti alla pietà. Si chiede: «Com’è possibile non avere pietà nei confronti dei colpiti dalla peste, dei morti?». La risposta che dà è che non bisogna fuggire, dobbiamo portargli aiuto. Da qui il passo è breve per arrivare a Levi-Strauss, e allo spettacolo Tristi Tropici, che vi si ispira, con il senso della pietà e del noi, ma anche per arrivare a Jean Jacques Rousseau, un altro pensatore fondamentale e alla sua idea dell’uomo buono per natura e dell’educazione del fanciullo nell’Emilio.

Il suo spettacolo Sonate Bach_di fronte al dolore degli altri connette undici movimenti coreografici a altrettanti episodi tragici di conflitti recenti: Sarajevo, Kigali in Rwanda, Srebrenica, Tel Aviv, Jenin, Baghdad, Istanbul, Beslan, Gaza, Andijan, Kabul. Qual è il rapporto che lega il corpo e la guerra?
Sonate
Bach nasce soprattutto per ritornare su certe tragedie, perché ci passano continuamente davanti agli occhi e spariscono e talvolta, certo, spariscono giustamente. Si trattava di tenere a memoria alcuni fatti, di dedicare il tempo per ricostruirne una fotografia attraverso centinaia di foto di fotoreporter di guerra, che hanno una dimensione brutale, quasi spoglia, per certi aspetti − direi − di un significato artistico. L’atteggiamento voleva essere questo: cosa succede al nostro corpo quando arriva a indossare le posizioni di quelle figure, attraverso una ricostruzione capillare di una coreografia che si fonda su cento, duecento fotografie di fotoreporter? Cosa succede al corpo che continuamente guarda queste immagini? Testo fondamentale per questo progetto è stato il saggio Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag, dove la scrittrice parla della bellezza in rapporto alla tragedia degli altri, come facevano i pittori antichi, rinascimentali, che rappresentavano la bellezza attraverso il corpo e il sangue di Cristo crocifisso, la Pietà oppure la Strage degli innocenti. «E tuttavia − verrebbe da dire con Plotino − emerge la bellezza». È necessario, però, stare attenti che non diventi semplicemente un esercizio di stile. Emerge la bellezza, certo, ma con un atteggiamento di grande pietà e attenzione nei confronti dello spostamento del mondo verso le guerre, dell’acquisizione di potere politico e di terre, della sopraffazione dei poteri economici. Questo è Sonate Bach.

"Studies of the Human Body" di Virgilio Sieni - Foto di Fotoamatori pistoiesi

In una nota sullo spettacolo Solo Goldberg Improvisation scrive che «questo lavoro è un manifesto […] qualcosa che rende il corpo pagliaccio tragicomico dell’oggi». È possibile trovare delle risonanze nel suo solo Studies of the Human Body?
Tra i due spettacoli ci sono certamente molti legami. Entrambi i lavori sono su una soglia e questa soglia è il mio corpo. Vi sono poi anche legami dal punto di vista strutturale. Solo Goldberg Improvisation nasce secondo una deiezione del tempo che va a depositare in quel solo tutti i miei lavori, le mie ricerche sul corpo, i miei concetti, le mie pratiche. Da questo punto di vista Solo Goldberg è una sorta di chiostro dove avvengono tutte queste cose − ed è il caso di dire sono avvenute tutte queste cose − almeno nell’ultimo decennio, quanti sono gli anni che lo faccio. Bach, costruendo un’architettura sublime, mi permette di suddividere in 32 parti − 30 variazioni e due arie − tutto il mio percorso nel corpo e nell’articolazione, ricollegato a precise opere pittoriche. Nei confronti di tale potenza bachiana posso solo agire nell’oggi come fossi veramente un pagliaccio tragicomico: ossia il mio corpo e la maestria accumulata nel percorso li dono a questa architettura e cerco di far apparire 32 narrazioni, come se narrassero lo svolgimento di tante pietà, di tante deposizioni, di tanti accenni agli storpi. The Studies of the Human Body-Studi sul corpo umano è un percorso nato per arrivare al mio nuovo solo intitolato Nei volti che ha debuttato al Théatre du Merlan, Scéne Nationale a Marsiglia il 17 novembre scorso. Nei volti si ispira a volti di persone non famose, ma molto vicine a me. Ho voluto tornare a guardare questi volti, a prendere ispirazione da loro: sono persone che hanno resistito a qualcosa, continuando a vivere in un territorio, a fare un certo mestiere in una forma umile, perseverando, perseverando. Nell’ispirarmi a questa idea di vicinanza di sguardo, di profilo, ho utilizzato una tecnica a me cara, che consiste nel riprodurre manualmente i volti, con dei manufatti molto semplici, come dello scotch chiaro di carta su fondo nero. Sotto un altro aspetto Nei volti ha un legame forte con Solo Goldberg: in entrambi è applicato il concetto di variazione. È come se avessi un canovaccio fatto di gesti, intensità, spostamenti nello spazio e il corpo agisse come variazione, ossia non tutto è coreografato, ma allo stesso tempo non si tratta di improvvisazione.

Nel 2007 ha creato l’Accademia sull’arte del gesto a Firenze, un progetto innovativo dedicato alla trasmissione del movimento. Come nasce il progetto?
L’Accademia sull’arte del gesto nasce con lo scopo di portare più persone possibili a una riflessione sul corpo e sulla sua poesia. Non è rivolta solo al professionismo, ma anche a coloro che si dilettano, dall’infanzia all’anzianità. Ciò significa fare dei percorsi che non sono esclusivamente lezioni di danza. Si tratta infatti di percorsi molto più aperti che possono guardare alla natura, a un’opera d’arte, a un luogo, a una poesia, cercando di unire questi elementi attraverso il corpo e il suo studio. Incontriamo quindi maestri, coreografi, persone che in qualche misura si dedicano al corpo, ma anche artisti, pittori, filosofi. Con i bambini, ad esempio, l’idea è quella di andare a visitare i luoghi dei grandi maestri, di tornare a osservare l’opera d’arte e poi reincarnarla e incorporarla attraverso il proprio corpo. Tutto questo porta a una consapevolezza, a una visione diversa. Non si tratta tuttavia di “rifare la figurina che vedo”, bensì di sentire come funziona il corpo in quelle pose per cercare di andare oltre. In altri progetti, che si svolgono nelle metropoli, come Barcellona e Santiago, lavoro su una dimensione più urbanistica. Il progetto quadriennale che sto sviluppando dal 2010 per “Marsiglia 2013-Capitale europea della cultura” è un progetto molto complesso, poiché lavoro sia con l’artigiano che con il gruppo etnico, con l’anziano come con i bambini, con il boxer e con l’avvocato. Che cosa significa tutto questo? Riflettere assieme su un cammino − quello di un proprio percorso nella vita − e iniziare ad attivare il corpo. Non significa certo mettersi insieme e fare un balletto, ma dare importanza a qualsiasi spostamento, dinamica, gesto, dalla maniera di appoggiare a quella di osservare, e trasporli in una forma metrica, portando questi soggetti a un ritmo che di solito non praticano. Questa esperienza produce nei soggetti un grande desiderio di continuare il percorso, perché evidentemente subiscono delle ripercussioni psico-fisiche e poetiche: ci conosciamo e nascono belle amicizie, però attraverso un altro approccio. Lo scopo dell’Accademia è esattamente questo: spendere questi cammini, portare l’uomo al corpo. L’ho chiamata Accademia sull’arte del gesto non perché voglia racchiudere tutto nel concetto di gesto. Desidero tuttavia riappropriarmi di questa parola per evidenziare che non esiste solo un gesto produttivo e interessato nei confronti di un manufatto. Non si utilizza il corpo solo per ottenere a tutti i costi qualcosa. Lo si utilizza per donare: si può lasciare un gesto nell’etere, così come attivarlo secondo una dimensione di dono, considerandolo come un accrescimento personale, perché − come oggi si usa dire − “è un bene comune”.

Bevo un bicchiere d’acqua. Faccio attenzione a come afferro il bicchiere e lo porto alla bocca. Lascio Virgilio Sieni alle prove. Penso al suo corpo flessuoso, al suo spirito pungente, a un’altra dimensione dell’uomo in cui il corpo sa essere dono. Non consumistico, non mercificato.

Simona Polvani