Il sole filtra debole, tra gli alberi, nel parco giochi di Castello Pasquini, insolitamente inerte nelle prime ore del mattino, quando gli artisti riposano e le strutture sonnecchiano, in attesa di altre repliche e nuovi spettacoli. Creazioni coreografiche, viaggi nella memoria, piccole allegorie si alternano in momenti diversi della giornata, dal tardo pomeriggio alla sera inoltrata, tra luce naturale e illuminazione artificiale. Nuove produzioni, iniziazioni, esposizioni, abitano spazi differenti per tipologia e struttura, suoni e rumori, visione e fruizione, adattandosi alle sonorità e alle luminosità degli habitat, chiusi o aperti, intimi o estesi. La sedicesima edizione di Inequilibrio si sposta dalle stanze della fortezza alla Pineta Marradi, dalla stazione di Castiglioncello alla Torre Medicea, dalle tensostrutture al lungomare, mutando forma al mutare dei linguaggi, al variare delle atmosfere, al cambiare delle cornici. Se un itinerario, tra passato noto e futuro possibile, è già stato tracciato (leggi l’articolo), questo racconto vuole essere una passeggiata tra albori mattutini e brezze notturne, silenzi scenici e quieti visive.
Bagliori pomeridiani accompagnano gli spettatori verso la Sala 1, lunga, stretta e buia. È Stefano Rimoldi, pantaloni e camicia nera, piedi scalzi, a rischiarare, e riscaldare, l’ambiente, aprendo la finestra su una sedia vuota. Nessuno spartito, poche note: non è la musica la protagonista del solo di appena 15 minuti, parte dei Tre studi sulla vacuità di Fosca. L’attenzione si concentra tutta sul corpo del musicista, diritto davanti al pubblico, volto serio, archetto in una mano, violino nell’altra. A essere fotografato è l’attimo prima del concerto, la postura, lo strumento che si adagia sul collo, le dita che sfiorano il legno cercando le corde, la testa che si piega trascinandosi dietro l’orecchio, le narici che inalano l’aria. Frammenti di Schumann, gesti, vibrazioni, respiri, per una musica da percepire e un silenzio da ascoltare. È più ampia, e accoglie un maggior numero di spettatori la Sala 3 del castello, muta ospite dell’ensemble che chiude il festival nella tarda serata del 7 luglio, primo studio per quintetto di Fosca, realizzato in coproduzione con Armunia. Tepore di un interno, fari sulla scena, un pianoforte a coda, quattro sedie, cinque spartiti per l’Op. 44 di Robert Schumann, che squarcia i momenti silenti, si interrompe e riprende, fiorisce e sfiorisce, cresce e decresce. Movimento corale, tiepidamente ironico, morbidamente plastico, tra corpi che cascano, tensioni che scemano, melodie da sussurrare, e un concerto che deve ancora cominciare.
Inizia con calma distaccata ‹age› di ColletivO CineticO. Un computer, parole che scorrono sul fondale, la scena che si compone pezzo per pezzo: un tavolo, una sedia, due panche, 4 litri di acqua in bottigliette di plastica, e 9 adolescenti, tra i 16 e i 19 anni, labbra serrate e sguardo rivolto al pubblico. Un elenco di caratteristiche fisiche, caratteriali, comportamentali, una serie di movimenti collettivi per un’azione performativa scandita dal suono di un gong. Si alzano dalle panche, gli ‘esemplari’, quasi giocatori in attesa di entrare in campo, si spostano con passo deciso verso il centro del palco, seguendo le didascalie, che prima descrivono le specificità, poi associano una peculiarità a un gesto, infine coordinano formazioni corali per arrivare alla decostruzione dello spazio ludico. Descrizione e ordine. Esposizione e imposizione. Parata di adolescenti che non si raccontano, ma rispondono a un comando, freddamente, lucidamente. Performance schematica, matematica, analitica. Gioco rigidamente disciplinato, rigorosamente pulito, non privo di energia e ironia, ma al quale ci sembra che manchino partecipazione, reale condivisione, e umano calore.
È debole e torrido il chiarore che entra nella Cappella situata alle spalle di Castello Pasquini, che ospita, in orario tardopomeridiano, la mostra di Roberto Abbiati Balene, asini e pialle. Casupola abitata da cavalli di legno e mestoli, popolata da capre con muso di spazzola. Spazio da sogno, pullulante di oggetti riciclati, eredità di vecchi spettacoli. Ventre gravido di ingranaggi magici, dove le seggiole diventano asini e i bauli uomini. Ed è quasi soffocante l’aria nella piccola sala, delimitata da teli bianchi, che accoglie Carezze, di e con Roberto Abbiati e Maurizio Lupinelli. Viaggio a disegni di due adulti che ritornano bambini, tra bolle di sapone e onde marine, scaramucce infantili e malinconici ricordi. Non ci sono voci in Joseph_kids, solo musiche che accompagnano immagini, e nuvolette che comunicano stati d’animo. Linguaggio multimediale e lessico fumettistico s’incrociano, performer in abiti da supereroi s’incontrano nella versione per bambini del primo solo di Alessandro Sciarroni, che ha voluto Michele Di Stefano davanti all’occhio digitale. Il volto si deforma, il corpo si sdoppia, creando figure buffe e ironiche, tra musiche di Bjork e Morricone, atmosfere western e tenere chat per piccoli nerd.
Bianche e nere, ingiallite e rovinate, lievemente sfocate o decentrate, strappate o ben conservate, le fotografie di Foresta Bianca – esito di un progetto biennale ideato da Matteo Balduzzi e Stefano Laffi per Armunia – ritraggono diverse stagioni e differenti momenti della giornata, dal mattino alla notte, dall’estate all’autunno, dalla spiaggia alla pineta, dagli anni Sessanta al Duemila. Scatti muti, che raccontano chiacchierate fra amici e gite di famiglia, momenti di solitudine e di condivisione, lunghi sguardi al mare e abbracci colmi d’amore. A descrivere le istantanee, protette da cornici bianche, brevi frasi: nomi, luoghi, date, parole che dormono su fogli sostenuti da spilli, precari sostegni per tempi che mutano e anni che passano.
Rossella Porcheddu