Estate a Radicondoli

Corto circuito fra parole, musica e un re

Recensione a Enrico 4 Michele Di Mauro

«Chi è l’autore? – di Enrico 4, di Enrico IV, dell’immaginario collettivo che ci si può costruire intorno – Son trecento!». È proprio Michele Di Mauro, autore e interprete di Enrico 4, ad indicare, dalla scena, la pluralità in agguato nel suo spettacolo. Nelle Scuderie del Palazzo Comunale di Radicondoli è andato in scena questo monologo musicale all’origine del quale si trova l’Enrico IV di Pirandello, ma che si sviluppa poi secondo un montaggio del tutto personale di brani (teatrali, ma anche letterari, cinematografici, musicali) intorno al tema della follia del re. Del testo pirandelliano è trattenuto soltanto lo spunto, a mo’ di innesco, la vicenda che conduce Enrico alla pazzia: il protagonista, invitato a una festa in maschera, si traveste come il re inglese; in seguito a una caduta da cavallo, batte la testa e, al risveglio, crede di essere proprio il mitico personaggio. Di questo evento rimangono, in scena, poche parole strappate, un cavallino a dondolo di legno e la corona dorata che a volte Di Mauro indossa; oltre, naturalmente, agli occhi allucinati del performer, fissati in una follia senza ritorno. Di qui, un incipit che incornicia la performance, il pubblico è trascinato in un viaggio fra letteratura drammatica e poesia, rivista, cinema e musica: brandelli di testo dalla provenienza più varia si inseguono nell’interpretazione di Di Mauro, che procede per scatti e variazioni improvvise, acrobazie di senso, di tono, di intensità.

Foto di Omar Padilla

Ci sono le canzoni di Petrolini e Sentimento nuevo di Battiato, la scrittura spezzata di Heiner Müller e quella micidialmente lucida di Raymond Carver, e poi la poesia di Leopardi, e poi ancora un affastellamento di citazioni e affondi (testuali, ma anche tonali ed emotivi) di cui non è interamente possibile (né necessario) individuare l’origine. Insieme alla performance vocale di Di Mauro, il delicatissimo lavoro musicale di G.U.P. Alcaro, compositore che propone una partitura di rumori, voci, musiche che inseguono e precedono la follia del re. Lontano dal porsi a semplice intermezzo o commento della narrazione scenica, il tessuto musicale di Enrico 4 è vero e proprio performer (nel duplice senso di personaggio e di presenza che agisce in scena), alla pari dell’interprete tout court. Il dispositivo compositivo sembra fondarsi più su sperimentazioni di avvicinamento al cortocircuito che secondo schemi di montaggio, sia per quanto riguarda i rapporti fra parola e musica, sia all’interno della struttura narrativa. I passaggi fra un testo e l’altro sono sempre meno segnati, in un’interpretazione magmatica che intreccia, in un unico frammento, anche tre o quattro registri differenti, mentre può recuperare, in seguito, lo stesso andamento per più passaggi testuali. Il lavoro sulle sperimentazioni fonetiche acquisisce qualità tattili che vanno oltre la dimensione acustica e si riversano su altri contesti percettivi, modificando, ad esempio, lo spazio (che, prima claustrofobico, a tratti sembra materializzare l’ampiezza di una cattedrale).

Progressivamente i limiti fra i diversi territori drammaturgici e i percorsi di senso si sfilacciano, fino ad andare a comporre un mormorio continuo e delirante, una lingua che è musica, fra paradossi e allitterazioni, onomatopee e colpi di scena. Lo scollamento fra senso della drammaturgia e natura dell’interpretazione è sempre sottolineato, invocato, giocato e rimescolato. Modulazioni di voce che procedono per strappi, esplorazioni intorno al potere della macchina attoriale, un lavoro sulle varietà possibili della phoné sono gli elementi che fanno della performance di Di Mauro un’esperienza – innanzitutto sonora – travolgente, nonostante lo spettacolo sia composto per affondi che rischiano a volte la dispersione e mettano in difficoltà l’attenzione dello spettatore. Certo è, infatti, che il viaggio vorticoso di Di Mauro non si può seguire appieno: si entra e ci si allontana, si sprofonda e poi si esce di nuovo, pena l’intrappolamento nella follia del re – e le volte che accade lo spettacolo è spaventosamente efficace.

Oltre il leitmotiv della scrittura intorno alla pazzia, la drammaturgia di Enrico 4 mantiene e sviluppa un’altra radice del testo pirandelliano. Scritto alla fine del 1921, nel periodo del “teatro nel teatro” e proprio a ridosso di capolavori come i Sei personaggi, Enrico IV è un esperimento magistrale sulle relazioni (e le possibilità di confusione) fra realtà e finzione. Ed è proprio in questo contesto che emerge il lavoro drammaturgico e scenico di Michele Di Mauro – innanzitutto performer, ma a volte anche personaggio, cantante, attore, autore e forse, in qualche momento, se stesso – che è davvero difficile incastonare in limiti o identità, attoriali, drammaturgiche o culturali che siano.

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Roberta Ferraresi

Note a piè di presente

Recensione a GesuinoSimone Nebbia

Viviamo in tempi difficili. E questo si sa. Ma soprattutto ce lo diciamo da anni, forse da sempre. La lotta per un mondo più giusto non ha mai fine, non può trovare una soluzione conclusiva in una realtà che cambia e muta sempre più velocemente. Gli scenari non solo si modificano, ma trasmutano gli uni negli altri, ibridandosi senza mai congelarsi in un’immagine precisa. «La rivoluzione è permanente» — lo dicevano lo stesso Marx e Engels, e ancor prima di loro Trockij — non come millantano i contestatori di questi tempi che per darsi un’importanza e un tono si rifanno alle care vecchie rivoluzioni, “quelle che hanno cambiato la storia”. Definire una buona prassi rivoluzionaria costituisce forse un paradosso storico degno di riflessione. Simone Nebbia con il suo Gesuino porta sul palco questo scenario confuso, parte — purtroppo — di una generazione che la rivolta se la deve reinventare, ritagliandola tra gli attuali mezzi di comunicazione e le nuove strategie di strumentalizzazione delle masse, di qualunque estrazione sociale esse siano. Il palcoscenico si trasforma in un uno spazio apparentemente fuori dal tempo, complici le note della chitarra di Marco Lima e i testi dei brani cantati dallo stesso Nebbia. La storia di Gesuino è una storia che nasce dalla povertà, dalla mancanza di strumenti per sopravvivere in un mondo che non si sofferma ad osservare chi veramente non possiede nulla, se non ricordi attorno ai quali non si possono costruire pareti. Eppure Gesuino ama: ama camminare, ama gli oggetti che lo riconducono alla sua infanzia, soprattutto la musica. Una musica che è assenza di note nelle sue memorie, che è una statuina di un carillon rimasto senza involucro. Libero come quell’oggetto, Gesuino cammina, cammina, cammina sino a raggiungere un mondo fantastico, fatto di uomini con la testa di insetto e un castello di boriosi personaggi, raccolti attorno ad un re e ad una regina che ricordano i nostri più cari politici. Sì, proprio quelli che grazie a giornali e televisioni vogliono “starci vicini” anche se lontani dai nostri bisogni. Un mondo troppo reale, più reale di quello in cui viviamo. Ed è qui che Gesuino diviene parte della rivoluzione. Ma quale rivoluzione? Quella delle masse, il cui disordine presuppone comunque un personaggio che la controlli? O forse quella degli umili, che aspettano il momento più opportuno per far esplodere la rivolta? Gesuino cammina pazientemente, raggiunge l’Amore, dimensione fondamentale per guardare alla vita dalla giusta prospettiva. Ed è la sua pausa, sulle rive di un lago che sembra un mare, dialogando con quella  stessa statuina che gli teneva compagnia nella sua solitudine, che gli consente di osservare con distacco i fatti che si snodano di fronte a lui, costellati di sangue e prevaricazioni. La storia di Gesuino non si conclude con una rivolta vinta, ma con un nuovo inizio. Perché la rivoluzione «ti scoppia in faccia», improvvisamente.

Simone Nebbia solo apparentemente si spoglia dai suoi panni di critico teatrale per portare sulla scena la sua voce, divisa tra la narrazione e la canzone: una voce di protesta, un atto politico estremo che guarda al presente con  straordinaria lucidità, lasciando lo spettatore in una sospensione, in attesa che tutti i televisori si spengano liberandoci da ipocrite e false parole.

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Giulia Tirelli

Frankenstein tra scienza e realtà

 Recensione a Doctor FrankensteinCantieri Teatrali Koreja

 

foto di Omar Padilla

Una scena meticolosamente curata fin nei minimi particolari, un laboratorio tecnologico a metà tra l’ottocento e il tremila, attira lo sguardo dello spettatore che si perde tra gli ingranaggi di meccanismi sconosciuti e le teche in vetro ricolme di strumenti chirurgici e parti anatomiche. L’impatto visivo è decisamente  forte e colpisce anche l’occhio più disattento. È il laboratorio del Doctor Frankenstein, una rilettura del testo di Mary Shelley, messo in scena dai Cantieri Teatrali Koreja – storica compagnia pugliese che da dieci anni opera in Salento e che da qualche tempo si è costituita come Teatro Stabile di Innovazione, un passo importante per lo sviluppo della creatività in un territorio “bisognoso” di nuove risorse.

Francesco Niccolini rilegge il testo dell’autrice inglese ispirandosi ad altre saghe, da Blade Runner a Io, robot: la creatura nata dalla scienza che vuole riscattarsi e avere una vita vera è ormai ricorrente nel panorama fantascientifico. L’inumano che diventa umano, l’uomo che dipende da una macchina: tematiche che sfiorano le realtà più inquietanti della ricerca medica attuale. Il testo scorre in frammenti ripetuti, la stessa scena si replica con piccole varianti, in un loop claustrofobico che descrive un rapporto malato che non trova sviluppo o via d’uscita – il dottore che vuole uccidere la sua creatura e l’impossibilità di farlo. Fabrizio Saccomanno e Fabrizio Pugliese si spingono in un’interpretazione forte, recitano la strana coppia e lo fanno con una pratica attoriale precisa. Il mostro interpretato da Pugliese si distingue per una fisicità spinta da spasmi e tic, accompagnata da una voce tra il tenero e il diabolico, frutto di una psicologia malata.
Il rapporto che si stabilisce tra i due protagonisti è cristallino, ma forse meno chiaro è il percorso drammaturgico e lo scopodei contenuti. I voluti riferimenti all’attualità, ai recenti sviluppi in fatto di morte assistita e di ricerca genetica, rimangono solo accennati senza approfondire tematiche che arricchirebbero l’interessante chiave di lettura della regia, curata da Salvatore Tramacere e dallo stesso Pugliese. Forse l’attenzione all’immaginario fantascientifico sovrasta i rimandi alla realtà che scoloriscono, persi in secondo piano rispetto ad un impianto scenografico decisamente imponente.

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Camilla Toso

Radicondoli – Serata del 30 Luglio

30/07/2010 Festival Estate a Radicondoli. I commenti entusiasti dopo gli spettacoli di due giovani artisti, Simone Nebbia con Gesuino e Tommaso Taddei con Quanto mi piace uccidere.

Gesuino

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Quanto mi piace uccidere

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Trappole di parole

Tommaso Taddei

La lingua di Quanto mi piace uccidere… all’inizio è quella sinuosa, liscia, insidiosa della politica, incarnata nei ringraziamenti di un giovane neo-eletto ai propri cittadini: in una parlata che alterna pacatezza e slanci passionari, ammiccamenti e scatti d’ira, si susseguono tanti cliché che caratterizzano la retorica politica contemporanea, dai classici richiami alla patria e alla famiglia, a stratagemmi che invocano ai valori tradizionali dell’amore e dell’uguaglianza. Parole che scivolano e fanno scivolare, incarnate nella precisa gestualità di Tommaso Taddei; convince, quasi, di essere una possibilità di riscatto o una svolta o almeno una speranza di miglioramento per i suoi elettori (e spettatori). Poi il linguaggio si fa più duro, più esatto nella sua tenerezza e atrocità – quando si scopre che l’acclamato e benvoluto giovane politico, ovviamente anche industriale di successo, è un efferato omicida, iniziato ai crimini più atroci in tenera età. Qui le tonalità morbide degli affetti d’infanzia (amore materno, giochi, animali domestici) sono sapientemente intrecciate con i dettagli più macabri, raffinatezze culinarie con immagini di una violenza inaudita. Da piccolo, il protagonista è stato iniziato alla violenza in famiglia, uccidendo prima i gattini di cui si era preso cura, poi arrostiti sotto la guida esperta della madre, poi cuocendo il cadavere della madre stessa e quello del padre, per passare infine al vero e proprio omicidio seriale, in un crescendo di violenza, orrore e follia.
Con il volto ormai deformato in una maschera di ferocia, la voce di Taddei tende lunghe frasi micidiali e incalzanti, quasi a restare senza fiato: lo spettacolo diventa un fiume di emozioni (docili, tremende, dolorose – tutte insieme), con momenti di straordinaria poesia che travolgono il senso inconcepibilmente crudo delle vicende.
Un progressivo crescendo (di lirismo e ferocia) rapisce lo spettatore attraverso la lingua poetica, travolgente, di Virginio Liberti (autore e regista di Quanto mi piace uccidere…) e l’interpretazione calibratissima di Tommaso Taddei che, insieme, tracciano un inquietante ritratto per contrasti, in cui è poi difficile andare ad identificare i propri limiti e le origini delle proprie prospettive. Carezze e perversione, vaporosità e sprofondamento, lirismo e follia sono elementi che accompagnano tutto lo sviluppo dello spettacolo: presenti fin dall’inizio – in cui sono lievemente imposti, con pacata eleganza, nella retorica politica più convenzionale – vengono poi assaporati ed esplorati per gradi nei primi momenti dei ricordi d’infanzia, attraverso mutamenti d’intensità minimi e progressivi, fino ad una lacerazione che fa a brandelli i confini dell’orrore, della presenza e dell’identità. La discesa nell’abisso è impostata secondo ritmi talmente lievi e impercettibili, attraverso contrasti così organici (di senso, di voce, di mimica) che si intrecciano, crescendo assieme, lungo tutto lo spettacolo che quando lo spettatore si rende conto di trovarsi di fronte non ad una promessa della politica ma ad uno spietato serial killer con la passione per il cannibalismo è troppo tardi per tirarsi indietro. Il coinvolgimento, che smuove al ripugnante e allo stesso tempo invoca all’immedesimazione, è magistralmente preparato dalla scrittura di Liberti e dall’interpretazione di Taddei, che colgono la partecipazione dello spettatore in un ambiguo sprofondamento individuale all’interno del tessuto dello spettacolo: quando si desidererebbe allontanarsi dalle efferatezze del protagonista, farsi da parte, fuggire forse, la trappola di parole e voce, di espressioni e immagini, è già scattata da un pezzo.

Roberta Ferraresi

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La comicità di Benvenuti

Foto di Omar Padilla

Secondo Emerson – studioso che tentò di perfezionare la teoria aristotelica del comico – se si separasse qualunque oggetto o uomo dalla connessione delle/alle cose e li si contemplasse singolarmente, tutt’a un tratto diverrebbero comici. Prendete un uomo, la vita di un uomo e raccontatene gli aneddoti più tristi senza il minimo segno di compianto, ma con un certo ritmo ed un accento familiare, scandendola in rime e raccontandola come fosse un film; e vedrete che anche la più tragica vita si trasformerà in commedia. Fatelo in un luogo sicuro, dove è certo che ciò che state raccontando appartiene ad un altro mondo, fatelo su un palco di fronte una platea numerosa: ché a teatro si raccontano storie. E vedrete che la gente ne riderà di cuore. Ecco allora che la disperazione di un uomo di mezza età, la disoccupazione, il declino fisico e psicologico, l’alcolismo e la malattia — messi su carta dalla penna di Alessandro Benvenuti e trasformati nelle tragicomiche vicende della storia di Cencio — si allontanano dalla realtà per sciogliersi in risate.
Me medesimo
è un testo autobiografico dell’autore fiorentino scritto nel 2005 e pensato per l’attore Andrea Cambi, scomparso prematuramente pochi anni fa. È uno sfogo rispetto una vita ingiusta fatta di fallimenti e peregrinazioni emotive, di fregature e crudeltà. Quando Benvenuti ne parla lo presenta come un testo sul dolore, scritto in un periodo di profonda rassegnazione, ma espressione esso stesso di una profonda volontà e fiducia nel domani. La distanza dalla propria condizione è il primo passo verso la rinascita, è così che nasce il racconto di Cencio. Un pezzo di vita, delle molte vite di tutti quegli uomini che — presi dalla disperazione e dalla crisi — si ritrovano “ridotti a un cencio”, uno straccio appunto. Uomini comuni, padri di famiglia, cassintegrati, plurilaureati, disoccupati con problemi di salute e patologie immaginarie. Classiche problematiche da crisi di mezza età: dolori all’ernia, sovrappeso e fisime sulle dimensioni dei propri genitali. Impossibile non disegnarne una caricatura.
Le vicende si accavallano l’una sull’altra in un frenetico e continuo flashback cinematografico di vite raccontate in forma di sceneggiatura. Primo piano, piano sequenza, campo lungo: come sarebbe pensare la propria vita al di là della macchina da presa. Cencio è il primo a tentare di distanziarsi dalla propria esperienza, per riderci su, tentare almeno un timido sorriso che in mano ad una platea si trasforma in risata fragorosa. Punto indispensabile per scatenare la comicità è creare «qualcosa come un’anestesia momentanea del cuore» scriveva Bergson nel suo saggio sul riso. La distanza che divide palco e platea, autore e personaggio, è fondamentale per stimolare la comicità ricercata da Alessandro Benvenuti. Tagliente e cinico, l’autore toscano usa una scrittura rimata di grande poesia per descrivere situazioni caustiche. Abusando ed esagerando nell’uso di vocaboli ed aggettivi , battute, giochi di senso e allusioni, costruisce un iperbole tragicomica che sfocia nella confessione stessa della condizione d’autore: «adesso basta qui ci metterei un bel punto!», quasi a voler sottolineare che almeno ciò che scrive, Cencio-Benvenuti, è perfettamente sotto il suo controllo.

Camilla Toso

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La morte ti fa donna

Foto di Omar Padilla

La morte e la solitudine: temi cari, forse ossessivi nella scrittura di Bernard-Marie Koltès, giovane autore morto nel 1989, a 41 anni. La sua opera è stata riscoperta, esplorata e portata sulle scene in Italia, come simbolo di un macabro incastro tra arte e vita, biografia e creazione. E, in un gioco inquietante di coincidenze, è proprio della morte che parla il testo ritrovato in una tasca dei suoi vestiti, incompiuto come la vita dell’autore. Coco descrive gli ultimi istanti di vita, non ancora infranta ma già sottratta, del personaggio che ha fatto delle sue spigolosità e della sua durezza una leggenda. Gabrielle Bonheur Chanel in arte Coco, sul letto di morte è sola, nella sua casa, incapace di godere di tutti i piaceri della vita di cui si era circondata. Solo Consuelo, la sua serva, le è accanto. Questo il punto da cui partono Alessio Pizzech e Dario Marconcini dell’Associazione Teatro Buti, per dialogare, servendosi della scena, sul senso della morte, della solitudine e delle gerarchie. I due registi portano sul palco due differenti letture del testo, a cui hanno lavorato separatamente, con musiche e scenografie distinte. Punto di contatto tra le due messe in scena Elena Croce e Giovanna Daddi, le due attrici che, in uno scambio schizofrenico di identità, interpretano alternativamente entrambi i ruoli, mostrandosi nella duplice veste di schiava e padrona. Un artificio che rispecchia perfettamente il gioco drammaturgico su cui Koltès costruisce il testo: laddove la vita aveva consacrato Coco come “regina”, ora la morte la relega in una condizione di umana sofferenza, difficile da accettare, ma della quale non può liberarsi, mentre Consuelo la osserva e le parla incurante delle critiche che la padrona le rivolge e del dolore che la sta divorando. Un sottile capovolgimento che i due registi portano sulla scena secondo visioni differenti. Se Pizzech vede in Consuelo un’umanità che le permette a tratti di avvicinarsi alla sua padrona, fino a farle coincidere nella stessa figura, entrambe sdraiate, entrambe con lo sguardo rivolto al pubblico, mantenendo però quella gerarchia che vede Coco sopraelevata, sul letto di morte, rispetto alla serva ancora ai suoi piedi; Marconcini relega Coco in una posizione immobile, a tratti statuaria nella sua veste bianca, mentre la sua schiava si muove libera sul palcoscenico sovrastandola e guardandola da quell’alto in basso di cui è forte chi sovrasta e prevarica.

foto di Omar Padilla

Elena Croce nella parte di Consuelo per la regia di Dario Marconcini

Scenografie di impianti opposti rispecchiano esattamente queste discordanti visioni. Per la Coco di Pizzech un letto bianco, immacolato, dietro il quale si innalza una parete che la celebra, incorniciandola come in un grottesco fotoritratto, mentre Consuelo siede ad un tavolino, immerso nel nulla, dall’altro lato del palco. Più monumentale, seppur nella sua essenzialità, l’allestimento di Marconcini, che vede due blocchi bianchi convergere in un unico punto, lo stesso dal quale Consuelo osserverà con compiaciuta freddezza la sua padrona, lasciando trapelare la sua natura di sciacallo, mentre Coco muore lentamente, sulle note e sulla ancor più straziante voce di Barbara, cantautrice francese che affianca nella storia della musica il nome di Edith Piaf.

Grazie alla bravura delle due attrici e la semplicità delle messinscene, Pizzech e Marconcini rivelano con questa doppia regia la duplice natura umana e crudele della morte, in un confronto dialettico la cui sintesi è affidata all’esperienza personale dello spettatore.

Giulia Tirelli

Visto a Estate a Radicondoli

Uomini fra la scena e la vita

 

Gioco di mano è una storia di uomini. Anzi, è le storie dell’uomo. Un individuo si fa portavoce in prima persona di diversi momenti cruciali dell’esistenza umana (ma è meglio specificare maschile): l’infanzia e l’accesso alla vita adulta, i rapporti di potere e l’affetto famigliare, la morte e la solidarietà. Sul palcoscenico – attraverso la presenza di Gabriele Di Luca, autore e interprete dello spettacolo con l’accompagnamento musicale del pianoforte di Daniel De Rossi – prendono vita i diversi uomini che compongono la famiglia e la genealogia del protagonista: un figlio con la passione dei film porno, un padre che non è mai stato felice, un nonno assurdamente mutilato in guerra, un bisnonno che è invecchiato in un giorno solo. La prospettiva è quella del figlio, protagonista e narratore, vortice in cui si convogliano anche tutte le altre vicende, a travolgersi e a confondersi, infine, in un’unica figurazione dell’umano. Non c’è personaggio in questo spettacolo, ma piuttosto un montaggio composto di mutamenti di intensità, che conduce lo spettatore da una dimensione chiaramente esposta (quella della gerarchia padre-figlio), in cui i confini sono riconoscibili, a un progressivo cortocircuitare di spazi, tempi ed emozioni, in un crescendo allo stesso tempo surreale ed iper-realista in cui non è più possibile identificare chi sta parlando di cosa.
Gioco di mano
è un passepartout che intende aprire molte finestre, porte e spiragli su mondi diversi: la masturbazione – a cui Di Luca si riferisce con l’eufemismo del titolo – è l’atto destinato a mettere in contatto le generazioni successive di una stessa famiglia, leitmotiv universale e punto di contatto personalissimo, soglia e amuleto. In questo momento rappresentativo del passaggio all’età adulta, quasi un rituale iniziatico-chiave dell’adolescenza, si formano gli uomini del passato e il protagonista coglie, in maniera umanissima, prossimità e somiglianze, solidarietà e comuni esperienze di vita. Il figlio, punito dal padre durante un atto masturbatorio, scopre in seguito che il padre stesso, e suo nonno e suo bisnonno prima di lui, sono stati protagonisti dello stesso processo: uno in spiaggia e l’altro in cantina, accusati dal genitore, puniti, e poi, cresciuti e padri a loro volta, condotti a punire il proprio figlio per lo stesso motivo, in una catena adolescienzial-genealogica che potrebbe risalire all’origine dei tempi e che arriva, infine, fino alla morte. È una ritualità che si ripete, che accomuna e intreccia, quella proposta da Carrozzeria Orfeo, in cui ricordi realistici si fondono a frammenti di vivace immaginazione, tragico e comico si incontrano, visioni estremamente surreali sono contrappuntate da profondi affondi emotivi.
C’è un che di “leggendario” nella saga minimal e popolare di Gioco di mano, vuoi per la cornice ancestrale, arcaica eppure così prossima, in cui si inseriscono le situazioni che compongono lo spettacolo (dalla morte del nonno alla solidarietà paterna ai modi di trasmissione del sapere); vuoi per l’efficacia delle citazioni e dei riferimenti di cui lo spettacolo è costellato, profili di un immaginario pop umanissimo, che si muove fra playstation, ricette di cucina, giornate in spiaggia. Ed è questa una nota da segnalare a proposito del lavoro drammaturgico all’origine di Gioco di mano, oltre il dispositivo compositivo che si sviluppa per inneschi e la cura per i dettagli: si tratta della pregnanza del rapporto fra scrittura e realtà. Ritmi calcolatissimi che tengono l’attenzione dello spettatore incollata al palcoscenico per un monologo di una certa lunghezza, cambi di registro frequenti, un’integrazione piacevole fra parola e musica, sono alcuni degli elementi che fanno di Gioco di mano una performance d’attore capace di incastonarsi all’interno dell’immaginario e dell’emotività del proprio pubblico, anche andando a deviare i rischi, che a volte si possono presentare, di dispersione fra un frammento e l’altro, fra le pieghe dei dettagli o i mutamenti di prospettiva che innescano itinerari autonomi e corrodono, in qualche caso, le centricità della struttura dello spettacolo.

Roberta Ferraresi

Sulla strada della contemporaneità

«Giocando sulle parentele d’assonanza fra messaggio e massaggio, mi feci prestare da Cordelli i suoi eterni occhiali neri e m’esibii, imbarazzatissimo, a palpeggiare il corpo nudo di Marion d’Amburgo stesa su di un lettino. In quell’immagine, còlta anche dall’obiettivo di Piero Marsili e pubblicata sul catalogo di quella manifestazione, mi riconosco ancora, riconosco un mio possibile ritratto».[1]

 

Arboreto Teatro Dimora

Nico Garrone, giornalista, sceneggiatore, conduttore di programmi televisivi e critico teatrale, non abbandona mai la scena a lui contemporanea, osservando l’evolversi del linguaggio teatrale in tutte le sue sfumature. Della sua parola Massimo Bacigalupo, ricordandolo, dice che «era per lui qualcosa di agito, un fare continuo eppure calmo». Nico non ha raccolto le sue innumerevoli recensioni in un volume, ma ha vissuto accanto al teatro di ricerca, coltivandolo e osservandolo con un’intelligenza e una genuinità di sguardo ormai distanti da tanta critica teatrale contemporanea. Lo dimostra l’importanza che Estate a Radicondoli, di cui è stato direttore artistico per molti anni, ha acquisito nella rosa italiana dei festival. Il Premio Nico Garrone ai critici più sensibili al teatro che muta e il Premio Nico Garrone a maestri che sanno donare esperienza e saperi nascono per volontà del Sindaco del Comune di Radicondoli, del Presidente dell’Associazione Radicondoli Arte e della giuria composta da Anna Giannelli e dai critici teatrali Sandro Avanzo, Rossella Battisti, Enrico Marcotti e Valeria Ottolenghi per commemorare l’intelligenza di un uomo che ha sempre guardato con grande attenzione al presente per proteggere il futuro del teatro, per lasciare che i linguaggi non si riducessero a mere espressioni di un punto di vista dominante. Ed è dal suo modo di osservare il teatro, dal suo genuino interesse per i nuovi linguaggi come strumento per abbattere le barriere del passato immaginando un futuro prossimo, che la critica italiana potrebbe prendere spunto, alla ricerca di una contemporaneità che per definizione non dovrebbe rifuggire dai palcoscenici italiani e di giovani compagnie e giovani artisti che muovono i loro passi sui palcoscenici senza guide e senza punti di riferimento. È forse  per uscire da questa logica autoreferenziale in cui si sono chiuse la critica e il teatro italiani che si è deciso di interpellare i veri protagonisti della scena. Ci sono stati/ci sono maestri di teatro lungo il vostro percorso che vi hanno aiutato a crescere, figure particolarmente disponibili, capaci di ascoltare, di mettersi a confronto con generosità? Ci sono stati/ci sono critici che hanno scritto di voi magari anche su riviste, giornali periferici che hanno contribuito al vostro percorso attraverso il loro sguardo, le loro analisi? Questa la domanda presente nella lettera inviata dalla giuria e che invitava le compagnie e i giovani artisti a far pervenire le loro segnalazioni.

Alessandro Benvenuti (cabarettista, regista, autore teatrale e televisivo, cantautore nonché personaggio chiave per l’evoluzione del linguaggio comico italiano a partire dagli anni ’70) e L’Arboreto-Teatro Dimora Mondaino (spazio interamente costruito con materiali eco-sostenibili che si presenta come «un paesaggio, naturale e artificiale allo stesso tempo, fondamentale per proteggere un sogno: un luogo di residenza dove perdersi nella lentezza e nella bellezza della ricerca») si aggiudicano il titolo di maestri che sanno donare esperienza e saperi soprattutto per la loro «capacità di ascoltare», come appuntato da Gabriele Rizza durante la presentazione del festival del 28 luglio. Claudia Gelmi de  Il Corriere del Trentino, Valentina Grazzini de L’Unità di Firenze e Marianna Sassano di NonSoloCinema.com vengono invece riconosciuti come critici più sensibili al teatro che muta.

I vincitori verranno premiati dalla giuria il 31 luglio presso Palazzo Bizzarrini durante Aperitivo critico, in un momento di incontro e di riflessione suMaestri e critici come compagni di viaggio: nessun tema avrebbe potuto rappresentare meglio il lavoro di Nico Garrone, riponendo al centro del dibattito i giovani artisti e il ruolo della critica, due luoghi da liberare da falsi istituzionalismi e ipocriti elitarismi culturali.

Giulia Tirelli

[1] Da un’intervista a Nico Garrone, http://www.adolgiso.it/


Una perla di poesia

Recensione a Una tazza di mare in tempestaRoberto Abbiati

foto Lucia Baldini

Nelle Scuderie del Palazzo Comunale, nel primo pomeriggio di festival Estate a Radicondoli, Roberto Abbiati porta in scena una riduzione in frammenti del Moby Dick di Melville. Uno spazio racchiuso ospita una quindicina di persone, adulti e bambini che in pochi minuti si lasciano trasportare sottocoperta dai racconti sul capitano Achab e la sua balena. L’attore accoglie il pubblico, come fosse a casa propria, chiedendo silenzio perché il teatro è un luogo sacro e anche lo spettatore si deve preparare alla visione. Uno spazio scenico davvero particolare riproduce l’interno di una stiva navale: quattro pareti di legno grezzo, qualche mobilio e tanti piccoli quadri. “L’equipaggio” chiuso al suo interno aspetta che succeda qualcosa.
Ecco allora che la nave prende vita: Abbiati interpreta Ismaele, il marinaio, e attraverso il suo narrare crea uno spazio quasi magico dove gli oggetti si animano e disegnano gli episodi della fantastica storia. Sono oggetti comuni — cucchiaini, grucce, conchiglie, pipe — lavorati e assemblati insieme per creare forme nuove: un veliero, una balena, l’albero maestro. L’attore li usa con una gestualità espressiva dalla mimica “onomatopeica”: la mano su cui si muove il veliero è l’onda che lo culla. Un movimento al limite tra il lavoro del burattinaio e quello del pittore, carico di poesia e precisione. I frammenti della storia di Achab si susseguono — un moto circolare intorno allo spettatore e dentro e fuori la stiva — in soli venti minuti: l’imbarco di Ismaele, l’avvistamento della balena, la tempesta e il naufragio illuminano la scena ogni volta con un espediente diverso, sempre con una poesia unica.
Roberto Abbiati (regista, scenografo e interprete) stupisce con questa perla di artigianato e maestria, dove la semplicità e l’equilibrio tra le arti creano un’atmosfera ideale, dove anche lo spettatore più anziano ritorna bambino e sorride di stupore. In fondo è il gioco che facevamo da bambini — quando ci chiudevamo nella scatola di cartone e la mamma faceva spuntare i pupazzi dai buchi delle “finestre”. Ci si ritrova all’interno di una macchina scenica progettata per creare meraviglie e piccoli mondi in miniatura. La scenografia non si riduce a puro abbellimento, ma diviene protagonista della scena, centro e motore di uno spettacolo in cui l’attore è il dio che con il suo soffio vitale crea il mondo.

Visto a Estate a Radicondoli

Camilla Toso