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La finitezza sfuggevole di Bestiale improvviso

Recensione a Bestiale improvviso – Santasangre

Nebbia, fumo, pannelli opachi disposti tra scena e platea. Una percezione incerta, dissolta e vibrante quella che si presenta all’ingresso della sala In.Off del Teatro Goldoni che, a chiudere la vivace rassegna EXTREME.TEATRO, ospita il lavoro di Santasangre, Bestiale improvviso. La nuova creazione del gruppo romano è l’epilogo di un lungo percorso scandito da “ipotesi” sul tema, la ricerca sull’energia, presentate – in progress – in occasioni come festival e rassegne, da Drodesera a B.Motion, solo per citare alcune tappe del lavoro. Con Bestiale improvviso Santasangre dichiara di parlare dinucleare, una fonte di energia primaria che se da un lato, tramite la fusione indotta, «è responsabile della pericolosissima bomba all’idrogeno – come si legge nel foglio di sala – con la fusione spontanea regala una delle più preziose manifestazioni della natura, l’energia delle stelle». Una citazione necessaria per procedere nella riflessione sul lavoro, fondamentale nell’assunzione di alcune informazioni di partenza non meglio esplicate nello spettacolo se non sotto forma di percezioni.

Bestiale improvviso

Il linguaggio artistico del collettivo, oscillando tra rarefazione e frammentazione dell’immagine, sorpassa ogni dettato concettuale e politico della questione, per approdare direttamente ad una rappresentazione ottico-sonora del fenomeno. Una pura esperienza percettiva quella che viene consegnata allo spettatore. Ma come si può tradurre l’energia? Scorporando l’opera in tre “parti”, il non-testo di Bestiale improvviso recupera una chiarezza e maturità che non era ancora presente nella 3ª ipotesi (sottotitolo dello studio precedente) e il lavoro si arricchisce sia nella struttura drammaturgica che in quella formale. A presentare come in un prologo gli elementi che costituiranno il lavoro, Bestiale improvviso si apre con la presenza di un pannello posto a margine del palco e dietro ad esso, a chiudere la “scatola bianca”, tre schermi per proiezione della dimensione del fondale e delle pareti laterali. Immersa nella nebbia – e al di là del pannello opaco – una massa in movimento. La visione si dissolve; la barriera accenna alla presenza di uno o più corpi in costante vibrazione, una pulsazione che prende vita dal suono, un lento risveglio. Con la discesa del pannello ogni presenza umana scompare e come in una corsa senza sosta e dalla meta sconosciuta, prende avvio l’attraversamento di uno spazio prospetticamente infinito proiettato nei grandi schermi. La figura amorfa che lo abita lascia libera l’immaginazione: si delinea una presenza inquietante, un essere animale che percorre veloce uno spazio ancestrale, luogo non identificabile nella sua astrazione. Allo stesso tempo è una fuga all’interno di una galleria, o la visione di un paesaggio alterato dalla velocità del treno. Certamente è movimento. Con il placarsi della corsa si ripresenta la figura umana: i corpi delle tre danzatrici (le bravissime Roberta Zanardo, Teodora Castellucci e Cristina Rizzo) appaiono questa volta senza barriere ma evidente – anche se non perfettamente riuscita – è la volontà di celare il loro femminino tramite l’ausilio di una tutina color carne e di una maschera-calza sul volto. Piccoli movimenti, gesti intermittenti e robotici per una lenta presa di consapevolezza del proprio corpo. Poi il crescendo: la potenza vitale trasforma i corpi in elementi taglienti e incisivi, “bestiali all’improvviso”.

Complice in tutto questo è la capacità di Santasangre di comporre una partitura in grado di riassumere in un’unica forma suono, danza e tecnica (dalle proiezioni video al disegno luci); ogni parte viene colta come riconoscibile in sé ma allo stesso tempo parte di un tutto, tassello di un universo in cui la potenza del singolo elemento va a sommarsi a quella dell‘altro. Un linguaggio affascinante che è stato interrotto dalla discesa di un’imponente struttura nera che nel ruotarsi verticalmente – fino a divenire parete che invade l’intera scena – ha lasciato dietro di sé i tre corpi e le superfici protagoniste finora del lavoro e creatrici di un movimento sconosciuto. Un escamotage va in scena. La luce riflette sulla lastra d’alluminio posta sulla struttura. I raggi luminosi invadono la platea e accecano il pubblico: si è manifestata l’energia ma il cambiamento di registro poetico, così epico, fa di questa apparizione una costrizione, un’induzione rispetto al naturale affiorare di bellezza e inquietudine delle creature di Santasangre.

Visto a EXTREME.TEATRO – sala In.Off del Teatro Goldoni, Venezia

Elena Conti

Virginie Brunelle: tra danza e humour di genere

Recensione a Les cuisses à l’écart du cœurVirginie Brunelle

 

Ad aprire la stagione del Teatro Fondamenta Nuove una coreografa d'eccezione, la giovanissima Virginie Brunelle, canadese, da due anni lanciata sulla scena internazionale grazie alla particolarissima ricerca sul rapporto tra i generi, sulla sessualità e la spersonificazione dei rapporti sociali. A Venezia porta uno dei suoi pezzi più interessanti, Les cuisses à l’écart du cœur: una rapida serie di quadri intorno alrapporto amoroso, eterosessuale o omosessuale che sia. Si susseguono in scena piccoli ritratti, vere e proprie coreografie istantanee: i preliminari, l'incontro-scontro, il rapporto sessuale, la relazione di coppia.L'atto sessuale viene spogliato e stilizzato nei sui tratti salienti, al di là di ogni psicologismo – gesti, pose e movimenti separati da ogni intenzione ed emozione, si trasformano in scena in coreografici loop. La composizione gioca con la percezione dello spettatore: attraverso l'uso di diverse velocità, un gesto, lento e incolore, assume un significato diverso; una ballerina in posa – inizialmente sola – affiancata al corpo di un collega, compone un quadro stilizzato che richiama alla memoria una precisa posizione dell'amplesso amoroso. Una sorta di completamento a-modale per cui un corpo stimola l'occhio dello spettatore solo nel momento in cui la posa diventa riconoscibile ed è possibile identificarla entro una certa area di gesti ormai socialmente codificati. A svelare il meccanismo di sorpresa-inganno il sottile riso del pubblico che si lascia coinvolgere dall'ironia che percorre la scena, un tocco di humour che sottolinea come in fondo fare l'amore possa essere anche un po' buffo. Ad accompagnare la performance Happy together di The Turtles, Au Suivant di Brel e l'Ave Maria di Schubert, quest'ultima quasi irriconoscibile nelle diverse versioni proposte. Anche in questo caso la musica assume una funzione drammaturgica ben precisa, guida i ballerini nell'azione e si intreccia con le immagini che nascono da quei piccoli ritratti di intima umanità.

Un totale cambio di registro lascia spazio ad un duo estremamente lirico, dove quelli che fino ad un attimo prima erano loop isterici, si mutano in movimenti e pose di estrema dolcezza. Corpi quasi commoventi per il loro pallore si stagliano sul buio della sala.
A dominare la scena il rosso, il colore della passione, dell’amore e del sangue; uno dei colori più stereotipati nella storia della cultura, non solo occidentale. È un marchio o semplicemente una scelta dell’autrice. Rossi i vestiti delle ballerine, rosso il turbante che ne copre i volti nelle scene di nudo.
La Brunelle alterna momenti corali puramente coreografici e altri più drammaturgicamente strutturati ad attimi di pura poesia. Sebbene la sua sia una ricerca intorno alla spersonificazione dei rapporti umani e questo lavoro porti in grembo una sana dose di auto-critica e riveli una visione dell’amore a volte cinica, resta comunque impossibile – per l’autrice ma anche per il pubblico – parlare di un atto d’amore senza lasciare spazio al lirismo.
Una tematica assai complessa, che non cade in stereotipi ma resta leggera e cammina sul filo tra humour e poesia.

Visto a Teatro Fondamenta Nuove, Venezia

Camilla Toso

Almodòvar a teatro

Recensione a Tutto su mia madre – regia di Leo Muscato

foto di Carlo Ciraudo e Max Majola

Era il 1999 quando Pedro Almodòvar portava al 52° Festival di Cannes il film per il quale gli avrebberoconferito il premio per la miglior regia, Tutto su mia madre. Una coinvolgente ed emozionante storia dove le donne erano protagoniste indiscusse e in cui si affrontavano diverse tematiche, dalla transessualità alla droga, dalla prostituzione alle malattie veneree, dall’amore familiare alla morte. Questioniche fanno ancora parte della nostra attualità e che a distanza di una decina di anni suscitano discussioni per il loro delicato equilibrio, sempre instabile e vacillante. Leo Muscato ritorna a quel 1999 e – seguendo il testo teatrale di Samuel Adamson basato sulla pellicola di Almodòvar e tradotto da Giovanni Lombardo Radice – porta in scena un Tutto su mia madre difficile da non paragonare al film, come invece il giovane regista chiede nelle sue note scritte per il pubblico. Infatti la struttura drammatica della pièce segue ampiamentel’andamento di quella cinematografica; tuttavia se il montaggio nel film è serrato per via dell’intricato intreccio tra i vari personaggi o luoghi che si sovrappongono, in teatro le scene si susseguono inframezzate da continui cambi a nero – abbastanza veloci sì, ma troppo numerosi – che rallentano lo spettacolo e bloccano il godibile scorrimento procurato dalla trama. Una messinscena che trova invece nei suoi svariati momenti meta-teatrali una buona riuscita: Muscato riesce bene ad allestire “lo spettacolo dentro lo spettacolo”, in particolare Un tram chiamato desiderio – qui recitato dalla passionale Alvia Reale –  che entra prepotentemente nel dramma in maniera intelligente e delicata, con veli che scendono dall’alto e una gradinata, che potrebbe benissimo rispecchiare il pubblico in sala, che viene usatadagli attori facendoli diventare per alcuni momenti spettatori.

È una storia travagliata in cui spiccano per l’interpretazione Elisabetta Pozzi, nel ruolo della protagonista Manuela, scappata diciotto anni prima da un marito diventato ad un tratto un transessuale chiamato Lola che di lì a poco sarebbe diventato padre senza saperlo; l’irriverente Eva Robin’s nei panni di Agrado, pepata trans amica della coppia, e la già citata Alvia Reale, che nel dramma è la diva del teatro spagnolo Huma Rojo alle prese con un amore omosessuale per una ragazza tossicodipendente.

Le donne di Tutto su mia madre si raccontano, soffrono, amano, si aiutano e cercano di continuare a vivere nonostante dolori indicibili le abbiano segnate. Un esempio di questo tormento è rappresentato all’inizio del dramma dalla morte di Esteban, figlio diciassettenne di Manuela; personaggio che forse troppo spesso riappare durante la pièce, una volta morto: egli rivive infatti già abbastanza nella memoria della madre, una bravissima Pozzi che trasmette la presenza/assenza del figlio solo con le sue emozioni e la sua forte espressività. Sarà proprio questa perdita a spingere la protagonista a ritornare a un passato che aveva abbandonato, alla ricerca di quel marito ormai irriconoscibile e alla fine della sua vita a causa dell’HIV. Uno spettacolo in cui diverse tragedie si susseguono, ma che sono ben alleggerite dalla presenza di Agrado che, a tratti, appare sul palco in veste di cabarettista, dialogando con il pubblico e facendo ironia sul suo corpo lavorato dal bisturi.

Uno spettacolo piacevole, un bel successo di pubblico, di cui una volta tornati a casa rimane, anche grazie la bravura di alcune attrici di cui si è già fatto plauso, la voglia di rivedere il film di Almodòvar o forse chissà, vederlo per la prima volta.

Visto al Teatro Goldoni, Venezia

Carlotta Tringali

Maternità, ma non a tutti i costi

Recensione a Stasera Ovulo – regia di Virginia Martini

La serata, inizia decisamente nel migliore dei modi, con un "aperitivo" di circo-teatro offerto dalla compagnia Piano C fuori dal Teatro Junghans: tra scatoloni e sacchi dell'immondizia, i due bravissimi acrobati e performer Giovanna Bolzan e Luca Tresoldi alternano momenti di virtuosismo circense (l'una alla pertica, l'altro alla corda molle) ad altri di manipolazioni d'oggetti e trasformismo. Sfruttando al massimo tutta la magia insita nel teatro di strada, ...Senza che? si rivela uno spettacolo in grado di affascinare, divertire e far tornare tutti un po' bambini.Ma entrati in teatro, si viene immediatamente ricatapultati nel mondo degli adulti. Stasera Ovulo di Carlotta Clerici — testo serrato, ben strutturato, in grado di calibrare perfettamente dramma e comicità affrontando un tema così complesso e delicato — inizia con una caustica freddura: teatro? mi piacerebbe, ma non posso, stasera ovulo.

Chiara inizia così il suo racconto, fatto di tentativi per riuscire ad avere un figlio: un desiderio che la porterà a intraprendere un percorso sempre più arduo e sofferto, fatto di consigli contraddittori di medici ed amiche, medicine ed effetti collaterali, in un climax costruito ad arte che scivola lentamente dalla comicità al dramma. Al ritmo di mutandine tolte con regolarità per controllare se finalmente il ciclo non è arrivato o per subire l’ennesimo controllo ginecologico, l’ironica e commovente Antonella Questa regala una performance attoriale garbata ma diretta, coinvolgendo il pubblico in questa triste storia, che accomuna moltissime donne, in cui un’ombra sinistra si staglia sempre più violentemente sulla sua esistenza: la sterilità. Stasera Ovulo — non a caso duplicemente premiato al Premio Calandra 2009 come Miglior Spettacolo e Migliore Interprete — è uno spettacolo forte, tutto al femminile, che, grazie alla minimale ed efficace regia di Virginia Martini, porta alla ribalta un tema attualissimo ma che raramente viene pubblicamente affrontato, perché l’infertilità genera pregiudizi e stigmatizzazioni primordiali: “ignominia” è il termine usato, e ricordato nell’intelligente e sottile drammaturgia, nella Bibbia per le donne che non riescono a procreare. È “il terrore atavico dell’estinzione della specie”, spiega la protagonista, che crea attorno  queste donne una sottile e subdola diffidenza.
Succede allora che si è disposte a infliggere al proprio corpo cure e umiliazioni pur di poter uscire da questa situazione: le gambe e il ventre si gonfiano, nausee e tensioni con il marito si susseguono; il sesso si svuota di qualsiasi piacere e sentimento per divenire puro e obbligatorio atto procreatore. Un processo che non sembra avere mai fine, ma proprio quando la situazione rasenta l’assurdità, di fronte all’ennesimo tentativo  con una bassissima percentuale di riuscita e devastanti effetti collaterali, Chiara dice basta: «voglio avere un figlio, ma non a tutti i costi. Questo è accanimento terapeutico». La scelta è dolorosa ma definitiva, e apre le porte a una rinnovata consapevolezza: ingoiata da questo vortice di paure ed esami medici, aveva concentrato tutta la sua attenzione sul suo corpo — colpevole e vuoto —, dimenticandosi del vero obiettivo, un figlio.

Dopo tutte le peripezie raccontate, rispetto alle innumerevoli tecniche per aumentare la fertilità o assistere la procreazione, una soluzione non presa fino a quel momento in considerazione risuona immediatamente più naturale: l’adozione. In un finale carico di dolcezza materna, alla luce di una candelina su una torta di compleanno, Chiara può finalmente festeggiare il primo compleanno di suo figlio, nato a Nairobi «per la gioia di mamma e papà».

Visto al Teatro Junghans, Venezia

Silvia Gatto

Nel bosco di Lucia

Recensione a Lucia nel bosco con quelle cose lì Questa Nave

Lucia nel bosco con quelle cose lì è la nuova produzione che Francesca D’Este – regista dell’ormai consolidata Associazione culturale Questa Nave – ha presentato in prova aperta al Teatro Aurora di Marghera appena prima dell’estate. Un racconto ambiguo e a tratti oscuro, una storia continuamente in bilico tra fantasia e realtà.

foto di Luca Giambardo

A raccontarla è Lucia – che non è veramente Lucia – una bambina di dieci anni – o forse sette – che gioca a raccontare la sua vita come vorrebbe che fosse mentre vive una realtà che la costringe a fantasticare. La telecronaca di un trauma infantile narrato in terza persona. Uno sdoppiamento che nasce dalla impossibilità di aderire completamente alla realtà che la circonda e che non trova risposta nelle sue mille domande: «Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande». Cosa sono “quelle cose lì”? La vita clandestina del padre e la serietà militare della madre portano la quieta vita familiare a cadere in un clima di disagio e negazione, fino alla condanna del padre, all’abbandono e alla disperata promessa di salvezza della figlia.

La messa in scena di Francesca D’Este si focalizza sullo sdoppiamento della protagonista nel passaggio tra realtà e finzione fino ad arrivare allo scontro interiore tipico della preadolescenza. Le coreografie di Elisabetta Rosso guidano le due interpreti (Simonetta D’Adamo e la D’Este stessa) in un continuo gioco di sguardi e rincorse, gesti e giochi, reinventando il mondo magico in cui corre la fantasia di Lucia. Il testo di Handke è forse troppo impegnativo e oscuro, è un racconto che riflette su una realtà adulta e lascia il quesito aperto ad ogni interpretazione: che sia una favola un po’ stramba o una tragedia interiore.
Questa Nave si conferma, ancora una volta, coraggiosa e piena di entusiasmo. Proprio per queste qualità verrà premiata il 5 giugno a Barletta dall’Associazione Nazionale Critici di Teatro per la stagione che ha portato avanti nel 2009-2010. Un programma volto a sostenere e scovare nuove e giovanissime compagnie, che fanno parte di quel sottobosco in cui sta crescendo una vera e propria “specie protetta” del/dal teatro italiano.

Visto al Teatro Aurora, Marghera

Camilla Toso

La Venere focosa di Malosti

Recensione a Shakespeare/Venere e Adone – di Valter Malosti

foto di Tommaso Le Pera

Astrattismo e atemporalità. Una scena essenziale, che rimanda a nessun contesto, a nessun luogo. Due figure abbracciate dal fondo del palco si avvicinano, ma senza muoversi, al boccascena. Sono trasportate, traslate da una piccola pedana posta su un binario: passano da una condizione oscura, dal loro essere ombre al farsi uomini, al divenir carne. Ma non sono loro a governare questo meccanismo; è piuttosto il fato. E loro sono uomini, appunto. Con tutto quello che ne consegue: fisiche pulsioni, erotismo, passione, sangue, violenza e morte. Venere e Adone, poemetto erotico-pastorale scritto da William Shakespeare agli arbori della sua carriera nel 1593, viene restituito dal regista-attore – e anche traduttore in questo caso – Valter Malosti, che ne incarna l’essenza. Unico ad avere la parola durante tutto lo spettacolo, il regista – di recente vincitore del Premio Ubu per la migliore regia con Quattro atti profani – con pantaloni in pelle, camicia con tanto di volant in petto e trucco al volto è il narratore, ma anche la dea dell’amore, Venere, scissa e consumata da questa focosa passione per l’efebico Adone – il ballerino Daniele Trastu – che diventa un pupazzo tra le sue braccia. Colpita da una freccia di Cupido per sbaglio, questa dea imponente trattiene il suo amato, lo cinge e lo solleva, lo bacia e lo accarezza: e Adone silenzioso si fa manovrare, incapace di uscire dal vortice tumultuoso di una passione incontrollabile. Perché «Venere lo domina con la forza, non con il desiderio». Adone è un manichino, troppo fanciullo per esprimere un proprio volere: anche i suoi pochi movimenti – ben riuscita e suggestiva la coreografia di Michela Lucenti – risultano plastici e rigidi. Ma la storia vuole che Adone, spaventato da questo amore violento, scappi e durante una caccia venga ucciso da un cinghiale. Solo nella fuga il suo corpo si libra verso una scioltezza, in alcuni momenti rapsodica.

foto di Tommaso Le Pera

I versi di Shakespeare si trasformano nella traduzione di Malosti e acquistano, nonostante un contenuto pregnante, una tonalità che veicola leggerezza; ritrova negli accenti napoletani allo stesso tempo calzanti e delicati una musicalità che cattura lo spettatore fino alla fine dello spettacolo. Malosti offre un’interpretazione originale in cui mescola le lezioni di personalità rilevanti come Enzo Moscato, Pier Paolo Pasolini o Testori; il suo è un impasto ben amalgamato, avvolto in una delicatezza che sfiora. Una storia d’amore che anticipa la sua tragicità nel suono curato da GUP Alcaro e nelle musiche inquiete e di malinconico presagio: notevole la ricerca dello stesso Malosti che abbraccia esperienze sonore diverse come quelle barocche di Purcell e Blow, passando per Lynch e Ligeti fino ad arrivare alle melodie meccaniche-elettroniche di Nono, Stockhausen e Maderna solo per citarne alcuni. Anche la scena di Paolo Baroni fatta di semplici teli si carica di inquietudine con il potente gioco di luci di Francesco Dell’Elba. Una poesia che lascia malinconici e che stona nel finale, quando al momento degli applausi tutte le luci si accendono e una canzone dal ritmo frizzante ed energico sembra trasportare il pubblico lontano da quel binario iniziale sospeso e astratto, come se si ritrovasse piombato all’improvviso in una serata da music-hall.

Visto al Teatro Toniolo, Mestre

Carlotta Tringali

Il riscatto della badante

Recensione a La badante – di Cesare Lievi

Ludovica Modugno

Quel dito medio non riesce più a distendersi. Rimane piegato e rigidamente immobile mentre il resto delle altre dita e la mano destra tentano di afferrare una tazzina di caffè con tanto, tanto zucchero. E quelle gambe: non sono più in grado di eseguire passi stabili e sicuri, ma arrancano, a stento riescono a sostenere il peso del corpo dell’anziana Signora; una camminata incerta da una sedia all’altra della stanza, un continuo rimbalzo di movimenti che portano con sé il peso dell’età. Artrosi e vecchiaia: un’accoppiata perfetta e che in maniera magistrale Ludovica Modugno, protagonista de La badante, riesce a trasmettere allo spettatore che, lontano dal vedere il suo viso ancora giovane, quasi crede alla sua veneranda età e solo al momento degli applausi capisce che è stato ingannato.

Scritto e diretto da Cesare Lievi e vincitore del Premio Ubu 2008 come migliore novità italiana, La badante si rivela un testo tremendamente attuale e realistico che affronta un tema presente spesso nei giornali di cronaca.

Nei panni di una vecchia Signora testarda, la Modugno si ritrova a dover vivere con una badante, una donna straniera che amorevolmente si prende cura dell’anziana e con cui a un tratto deve condividere la casa. Piena di diffidenza e di pregiudizi nei confronti di Ludmilla – questo il nome della donna ucraina interpretata da Giuseppina Turra – la protagonista sfoga il suo rancore verso i suoi due figli che le hanno messo, secondo lei, una “ladra” in casa. Proprio come diverse situazioni a noi vicine e reali potrebbero testimoniarci, la Signora rifiuta la necessità di avere qualcuno su cui fare affidamento non ammettendo che la sua memoria “fa buchi da tutte le parti”. Un personaggio ben delineato e approfondito che per alcuni aspetti ricorda i protagonisti amareggiati dell’autore austriaco Thomas Bernhard: con le sue fisse, le sue paranoie e i suoi ricordi; il padre fascista, la guerra e i morti da cui non riesce a liberarsi e che abitano il paesino di Salò dove la Signora ormai da più di cinquant’anni vive. Ma dei suoi fantasmi ne parlerà proprio con Ludmilla, con cui si confiderà e in cui troverà l’unica persona vera e viva, diversamente da quei figli che lei definisce “cadaveri”. Emanuele Carucci Viterbi, Leonardo De Colle e Paola Di Meglio sono i due figli e la nuora della Signora, personaggi che risultano deboli sia dal punto di vista drammaturgico che recitativo: troppo ripetitiva nei dialoghi la parte in cui sono sconvolti più che dalla morte della anziana madre dal fatto che la donna abbia fatto scomparire inaspettatamente tutto il suo capitale non lasciando nulla in eredità.

Ludovica Modugno e Leonardo De Colle

Una storia essenziale che Cesare Lievi dirige registicamente in maniera chiara e semplice, mettendo in gioco delle macrosequenze narrative non lineari ma che si incastrano tra loro rincorrendosi in una circolarità puntuale. La scenografia di Josef Frommwieser ricrea un ambiente casalingo spoglio dove le pareti alte, claustrofobiche e color sabbia riflettono l’aridità dei rapporti familiari che si risolvono solamente nella presenza di alcuni ritratti di persone non più in vita.  Uno spettacolo che ha il pregio di portare in scena un tema molto discusso oggigiorno ma che senza la presenza di Ludovica Modugno lascia per lo più indifferenti.

Visto al Teatro Goldoni, Venezia

Carlotta Tringali

L’Otello emozionale del Balletto di Roma

Recensione a OtelloBalletto di Roma

Foto di G.Orlandi

Mentre le tragedie shakespeariane continuano a porsi al centro dell’attenzione di registi e coreografi, la loro rilettura diviene fonte di aspettative e curiosità dello spettatore. Il coreografo Fabrizio Monteverde, alla guida del Balletto di Roma, è tornato, a distanza di quindici anni dal primo lavoro sul tema creato con il Balletto di Toscana, a confrontarsi con l’Otello, in una lettura che approda alle dinamiche emozionali e psicologiche del soggetto. Lo spettacolo comincia mescolando e lasciando nell’ambiguità la tradizionale triade Otello-Cassio-Jago, interpretati rispettivamente da Giovanni Ciracì, Placido Amante e Marco Bellone. Danzatori e danzatrici si presentano in lunghi cappotti neri che, foderati di tessuto rosso, vengono rivoltati dalle ballerine come a porre in gioco la dualità uomo-donna, passione-dolore. Una pluralità di “Otelli” e “Desdemone” sembra affollare la scena. Le danze di insieme lasciano scivolare in secondo piano le vicende della tragedia shakespeariana, focalizzandosi invece su relazioni umane, come l’amore, la passione e la conflittualità, analoghe al rapporto tra i due amanti. Solo con l’ingresso del fazzoletto bianco, simbolo dell’allusotradimento, la coreografia di Monteverde consentirà allo spettatore di tracciare un filo rosso con l’opera originale. La scena è caratterizzata da un’unica passerella vicino al fondale a identificare un porto di mare in cui intrecciare le vicende del generale e della sua amata, fino al tragico epilogo.

Foto di G.Orlandi

Questo luogo ospiterà infatti il corpo senza vita di Desdemona, interpretata da Claudia Vecchi, e sempre qui avverrà il pentimento del furioso Otello. Di notevole bellezza la scena finale dell’uccisione e del (rim)pianto, in cui il resto della compagnia si accosta ai protagonisti con fare corale, con accumulazione di gesti ripetuti che lasciano trasparire dai corpi, per un breve istante, un’interiorità bauschiana. L’opera non manca di scene in cui la retorica classica sembra prendere il sopravvento anche a causa dell’eccessiva enfasi musicale, sulle pagine di Antonín Dvořàk, ma l’Otello di Monteverde si aggiunge alle possibilità di rappresentazione della tragedia, in cui la danza continua ad affermare il suo primato nel rivelare gli impulsi dell’animo umano.

Visto al Teatro Toniolo, Mestre

Elena Conti

Un ostinato tramonto veneto

Recensione a Tramonto – regia di Damiano Michieletto

 

Somaglino, Previati

Il tempo scorre inesorabile ma quell’orologio, su cui cade l’occhio appena le luci sul palco si accendono, continua a girare intorno alle sei, orario che segna il procedere della giornata verso la sua fine, al suo tramonto. E proprio Tramonto è il titolo dello spettacolo di cui Damiano Michieletto firma la regia, scegliendo di riportare alla luce un testo di un autore interessante come il veronese che visse a cavallo tra ‘800 e ‘900 Renato Simoni. La storia vede Cesare, un politico di un paesino veneto, comportarsi in maniera despotica nei confronti di tutti quelli che lo circondano a partire dalla moglie Eva fino al nipote Carlino, ma anche verso sua madre, la baronessa, e i suoi colleghi. Se nella prima parte dello spettacolo, lentamente e affannosamente, si delinea questa situazione dove tutti i personaggi sono oppressi dall’alto egoismo autoritario del protagonista, solo più tardi si profila un’atmosfera asfittica e in disfacimento in cui la forte personalità di Cesare crolla in seguito alla scoperta del tradimento della moglie accaduto ben vent’anni prima. Mentre la frase disvelatoria “no go dito che la verità” riecheggia nella mente del bravo attore Giancarlo Previati – che veste i panni del protagonista –, le lancette del grande orologio posto in scena tornano indietro velocissime per fermarsi di nuovo e segnare inesorabilmente l’ora del tramonto. Quel tramonto che ha sempre segnato la misera esistenza di Eva – interpretata dalla convincente Nicoletta Maragno – che rinfaccia al marito di aver “recitato quel monologo eterno che è la tua vita, un’adorazione estetica del sé!” e che ora caratterizza l’esistenza di Cesare, che troppo tardi comprende di aver vissuto nella falsità, dove l’amore dei suoi cari nei suoi confrontinon era che una mera imposizione dettata dalla paura. Tramonto, scritto nel 1906, diventa così un dramma che ben si avvicina ai testi pirandelliani dove il protagonista deve fare i conti con la sua coscienza e la sua esistenza passata; assume allo stesso tempo i toni di denuncia ibseniani, di situazioni immobili e di falsi equilibri che si spezzano quando ormai è troppo tardi per poterli ricucire. La vera sconfitta di Cesare trova il suo apice, infatti, nel confronto con sua madre, la baronessa: nella figura materna egli tenta di trovare il riscatto della propria persona cercando amore e comprensione, una sicurezza che appare subito fallace tanto è l’orgoglio di quella donna. Dorotea Aslanidis interpreta una irremovibile nobildonna per cui non mostrare le proprie debolezze diventa essenziale a un punto tale che pronuncia parole tremende a suo figlio come “voria che non fossi mai nato si devi esser disonor de ta casa”.

Previati, Casarin, Plos, Spadaro

Il testo di Simoni è impregnato di rancori e amarezza,che fuoriescono, anche, grazie alla lingua veneta: il dialetto diventa infatti essenziale per credere a quelle emozioni, che non sono artificiali, ma vengono dal profondo e solo così possono trovare espressione. Bravo anche il resto del cast – Massimo Somaglino, Lino Spadaro, Pino Costalunga, Michele Modesto Casarin, Maria Grazia Plos, Andrea Pennacchi ed Eleonora Bolla – che copre parti minori e meno tragiche rispetto a quelle del triangolo familiare. Un Tramonto che risulta registicamente troppo didascalico nella rappresentazione della fine, tramite foglie secche e orologio bene in vista. Ma che fa arrivare la sensazione di malessere profondo, dal quale non c’è alcuna possibilità di riscatto.

Visto al Teatro Goldoni, Venezia


Carlotta Tringali

La magia è sul palco con il Teatro Nero di Praga

Recensione a DreamsTeatro Nero di Praga

Dreams

Luogo delle possibilità, il teatro è lo spazio dove si compiono magie, dove prendono vita situazioni immaginifiche e accadimenti unici, che trasportano lo spettatore verso altri confini. Puntuali e studiati accorgimenti  creano un mondo parallelo, simile ma allo stesso tempo lontano da quello reale; situazioni quotidiane e comuni si ribaltano e, avvolte in un manto poetico, regalano piacevoli emozioni.

Il Teatro Nero di Praga, arrivato a Venezia durante il periodo carnevalesco, è pienamente consapevole delle possibilità “altre” del teatro, tanto che da circa quarant’anni porta in scena, con diversi spettacoli, le sue magie e i suoi effetti stupefacenti che divertono il pubblico di ogni età. Dreams – titolo che si sposa benissimo con la condizione sognante in cui lo spettatore viene immerso – diventa un’occasione, per le maschere che si aggirano nella laguna festante, di poter vedere le capacità di questa compagnia in un unico spettacolo. Una collezione di scene tratte dal proprio esteso repertorio accompagnano il pubblico attraverso piccoli sketch mimati di situazioni e personaggi di tutti i giorni: la lavandaia, il violinista, il prigioniero o il fotografo. Seguendo la scia dell’arte circense ma aggiungendo la sua particolare firma, il Teatro Nero – fondato da Jiří Srnec nel 1961 nella capitale ceca – accantona la parola per sposare una gestualità divertente ma non solo; sorprendente è infatti l’apparizione di oggetti fluorescenti e fluttuanti che spuntano come per magia da una zona buia e oscura. Panni stesi, macchine fotografiche, violini e valige prendono vita improvvisamente provocando le risate dei più piccoli presenti in platea ma non solo: anche gli adulti tornano per un paio d’ore bambini uscendo da teatro sorridenti e predisposti maggiormente a far festa mentre il giovedì grasso impazza nelle calli.

Se la prima parte dello spettacolo risulta forse più ripetitiva, in quanto gli oggetti magici usati sono un numero limitato e si creano situazioni abbastanza simili, la seconda parte riesce ad affascinare e a stupire molto di più. Il mondo acquatico ricreato con tanto di meduse, pesci e sirene fluttuanti riempie il teatro di magia, mentre lo sketch che vede un cowboy-attore su un cavallo fatto di stracci e boccali al posto degli zoccoli anima lo spettacolo. La bravura tecnica degli attori sul nero – che manovrano gli strumenti fluorescenti come se questi si muovessero da soli – non si smentisce per un secondo: nonostante siano invisibili, questi sono i veri fautori del successo del Teatro Nero di Praga in tutto il mondo.

Visto al Teatro Goldoni, Venezia

Carlotta Tringali