vie scena contemporanea

Debutta Scenario: tra memoria e disincanto

Recensione di É bello vivere liberi di Marta Cuscunà e Pink Me & The Roses di Codice Ivan

Foto di Giuseppe Borsoi

Foto di Giuseppe Borsoi

Non delude il debutto di Marta Cuscunà – Premio scenario per Ustica 2009. La giovane ragazza friulana che questa estate si è aggiudicata il premio della giuria con È bello vivere liberi! porta avanti il suo percorso tra teatro di narrazione e di figura, stupendo per la freschezza e l’ilarità e dimostrando grande coraggio e determinazione.

Vi ricordate gli occhi di vostra nonna? Quando li vedevate accendersi di gioia, nel momento del ricordo, quando la sua mente tornava indietro e ripescava dal fondo di un baule sepolto dagli anni tutto quello che era stato. In un attimo era una ragazza forte e bella, di spalle un po’ grosse ma di sguardo fiero e deciso. Questa è la memoria. Questo è lo sguardo di Marta Cuscunà, mentre in scena riporta alla mente immagini della biografia di Ondina Peteani, staffetta della resistenza partigiana in Italia. La storia di Ondina è simile a molte altre: l’ascesa al potere fascista in Italia, l’avvicinamento ad alcuni gruppi di partigiani Jugoslavi come presa di posizione giovanile, la lotta, la fuga sulle montagne, l’arresto e il viaggio ad Auschwitz. La memoria e il racconto sono il passo più breve per avvicinarsi al Teatro di Narrazione, ma questa giovane attrice lo fa con un piglio tutto suo: affronta i suoi personaggi di petto per una recitazione leggera che sa rapire il pubblico e strappargli sincere risate. Un’ora e mezza passa veloce e resta la soddisfazione di un’operazione ricca seppur tradizionale – ai burattini vengono lasciati il dramma e la violenza  – per un lavoro poetico e destinato a crescere.

Tutto un altro teatro è quello di Codice Ivan. Il gruppo vincitore dell’edizione di quest’anno nasce da esperienze artistiche diverse e pluridisciplinari e, infatti, il lavoro che presenta risulta vicino alla  più cinica arte contemporanea. Partendo dal presupposto, metateatrale per eccellenza, di portare il processo creativo in scena, Pink, Me & the Roses analizza la pratica teatrale smontandone il dispositivo in oggetti, in fasi: nascita, errore, morte. Un’ immagine iniziale poetica/Stop/Un’altra immagine stilizzata e straniante/Stop/Analisi. Un processo che si ripete all’infinito, una casa dalle mille scale di Escher, uno sdoppiamento continuo di specchi paralleli. Si avvicina ad alcune opere d’arte contemporanea, installazioni apparentemente vuote di significato nelle quali è il processo creativo ad assumere un valore artistico rilevante.

foto di Federica Giorgetti

foto di Federica Giorgetti

Questo sembra essere ed è un lavoro concettuale importante, non solo riportato dalle immagini ma sostenuto dalle parole, che ci arrivano da un playback postumo a dimostrare che quello che abbiamo appena visto in scena (compresi i commenti che stiamo ascoltando) era ed è tutto già calcolato. Un lavoro quindi certamente interessante, che riflette sulla natura del teatro partendo dalla semplice favola di Esopo: quella in cui lo scorpione uccide la rana “perché è la sua natura” – un piccolo oggetto preso come esempio per imbastirci intorno un discorso molto più ampio e complesso che a forza di riflettersi in se stesso rischia di inciampare proprio nella vera natura del teatro. I giovani autori sembrano trovare una via d’uscita in una “riscoperta onestà”, uscendo dalla scena, «essendo, senza copione, delle semplici persone davanti ad altre persone che le stanno a guardare». Ma l’estrema semplicità proposta a scardinare il gioco e la dichiarata pretesa di «non voler dire niente» lasciano un po’ d’amaro in bocca, un po’ di stupore disincantato di fronte ad un teatro giovane e già così autoreferenziale.

Visto a VIE – Scena Contemporanea Festival, Modena

Camilla Toso


Tracce Sotterranee

Recensione a Dies Irae_cinque episodi intorno la  fine della specie Teatro Sotterraneo

21:00 / 60’00” Tempo e contro-tempo. La prima immagine è un countdown: sono le ventuno e un timer indica che lo spettacolo finirà tra sessanta minuti. Un’ora per indagare la fine della specie: la specie umana, ovviamente.Asettiche tute bianche, onomatopee e macchie; sembra uno splatter da fumetto, provoca il riso, ma l’effetto straniante delle prime azioni si trasforma in brivido quando la ripetizione e l’urlo caricano la scena di realtà: come  scuotendo una vecchia polaroid, dalla buffa macchia iniziale si delinea un volto, una maschera di panico e dolore. È seriale, è un processo creativo, è il tempo che scorre. Creazione e distruzione si rincorrono sulla scena, ogni immagine è distrutta dalla precedente, ogni azione dalla seguente, in un perpetuo tentativo di trovare e lasciare tracce.Si lasciano segni nel tempo, nello spazio, a volte evidenti, altre meno.
Il lavoro di Teatro Sotterraneo è un lavoro archeologico alla ricerca e definizione dei segni lasciati dalla specie: una ricostruzione dei fatti che lascia anch’essa prove inequivocabili. Cinque immagini che lavorano intorno allo scorrere del tempo, alla catalogazione dell’essere umano, in tutte le sue parti fisiche e non – sentimenti, desideri, paure. Molti i temi trattati e le fonti d’ispirazione: la scrittura scenica di Daniele Villa è carica di riferimenti. Ogni episodio parla un linguaggio diverso dal precedente, dal fumetto alla radio, alla fotografia, al cinema. Ma tutti sono destinati alla stessa fine: sparire per restare solo una prova e venire sotterrati dall’episodio successivo, fino all’esaurimento. L’unica figura ricorrente e personaggio con una sua evoluzione è quella del testimone; alla fine di ogni episodio egli riferisce l’ accaduto, e lo fa con il pubblico e per il pubblico, assumendosi un senso di responsabilità che si rivela però insostenibile, fino a logorare la testimonianza in un unico silenzio.

Il linguaggio espressivo di questo giovane gruppo toscano è variegato e spazia dalla performance al talk show televisivo, coinvolgendo il pubblico attraverso le strategie più immediate, domande dirette o l’interazione con telefono cellulare. Linguaggi e mezzi espressivi semplici che si costruiscono in giochi e scatole cinesi; la serialità e la ripetizione, tipiche del work-in-progress, divengono parte integrante del lavoro finito assumendo un nuovo significato e portando il processo creativo direttamente in scena.

Visto a Ponte Alto, VIE Scena contemporanea Festival 2009

Camilla Toso

Il teatro necessario dei Belarus

Recensione di Being Harold Pinter e Zone of silenceBelarus Free Theatre

Zone of Silence

Una necessità impellente di fare teatro, affrontare i problemi della società  di oggi, esternare e affermare la propria esistenza. Una recitazione che arriva diretta allo stomaco, una finzione scenica superata che si fonde con la realtà. Diventa riduttivo parlare dei Belarus Free Theatre, la compagnia bielorussa formatasi a Minsk nel 2005 dall’incontro tra il giornalista Nikolai Khalezin, la produttrice teatrale Natalia Koliada e ilregista Vladimir Scherban. Complice la dittatura sotto cui vivono, che li costringe ad andare in scena in clandestinità, il teatro dei Belarus è agito, sentito: trasuda un’energia impressionante, difficilmente riscontrabile in altre realtà teatrali. Assistere a Being Harold Pinter e Zone of silence, presentati per la prima volta in Italia a VIE- Scena Contemporanea Festival di Modena, è un’esperienza da vivere sulla propria pelle.

In entrambe le pièce bastano pochi mezzi per creare spettacoli di forte impatto emotivo: un piccolo quadrato disegnato in terra per delimitare lo spazio, attori preparatissimi che tramite il corpo, lo sguardo e le parole taglienti – pronunciate in russo e bielorusso sovratitolato in italiano – tolgono il fiato.

“Non vi è una rigida distinzione tra ciò che è reale e ciò che è irreale. Non è necessario che una cosa sia vera o falsa, può essere entrambi”. Con queste parole, sospese tra la vita e l’arte, si apre Being Harold Pinter: un concitato susseguirsi di frammenti tratti da alcune drammaturgie dell’autore inglese, che si alternano al suo discorso di accettazione del Premio Nobel per la letteratura nel 2005 e a lettere di prigionieri politici bielorussi.

La violenza – in tutte le sue sfaccettature, dalla famigliare a quella politica e sociale – fa da collante alle situazioni rappresentate, ma non è ostentata realisticamente, viene suggerita. Le immagini riprodotte in scena hanno una potenza evocativa, come la sensazione di claustrofobia data dal telo di plastica agitato sopra i corpi degli attori, mentre un crescendo di canti si trasforma in impercettibili grida. Disturba il suono stridente prodotto dalle dita che strisciano sull’orlo di bicchieri, mentre il linguaggio diventa sempre più crudo.

“La ricerca della verità non può essere rimandata, ma cercata subito. La reale verità delle nostre vite e delle nostre società è un compito decisivo che incombe su noi tutti. Se una tale determinazione non si incarna nella nostra visione politica, non avremo nessuna speranza di ripristinare ciò che per noi è così prossimo ad essere perduto: la dignità dell’uomo”. Una verità che i Belarus fanno sfociare nel volo di un aeroplanino fatto di carta e che alle sopracitate parole di Pinter viene dato alle fiamme: libertà di volo negata che diventa un’esplicita provocazione riguardante la situazione politica bielorussa, ma che abbraccia una realtà più ampia e che interessa il mondo intero.

Zone of SilenceL’atmosfera diventa colloquiale in Zone of silence – moderna epopea bielorussa in tre capitoli, dove differenti personaggi raccontano uno spezzato significativo della propria vita. Anche qui è labile il confine tra ciò che è reale o fittizio: l’infanzia difficile e la diversità diventano oggetto di analisi ma anche un modo per affrontare ed espiare, tramite l’atto scenico, delle verità che pesano come macigni. Si incontrano storie di bambini umiliati e mortificati, come quella di Vika Moroz, strappata a chi considerava essere i suoi genitori, nonostante fossero italiani: la ragazzina di dieci anni, diventata un caso per la stampa internazionale, prende vita con i Belarus attraverso un corpo fatto di giornali, tanti pezzi di carta costretti ad accartocciarsi di fronte a un amore negato. Se nel secondo capitolo si alternano personaggi ai margini della società, i cosiddetti ‘diversi’, e si passa dal nero omosessuale alla signora solitaria innamorata di Lenin, nella terza parte dello spettacolo vengono denunciate, attraverso semplici gesti e dati statistici, le condizioni esasperanti e preoccupanti di un paese che nega l’esistenza di gravi problematiche sociali come l’alto numero di aborti e di suicidi e le scarse condizioni di salute e di lavoro.

In Zone of silence il linguaggio corporeo è il vero protagonista: il silenzio verbale,a loro imposto in Bielorussia, non riesce ad impedire a questi attori straordinari di trovare attraverso la loro espressività gestuale un contatto con il pubblico, che diventa così ancora più potente. Il teatro diventa l’unico strumento che dà la possibilità a questo contatto di esistere, lasciando ai Belarus un ultimo spazio per affermare la propria dignità umana.

Visto a VIE – Scena Contemporanea Festival, Modena

Carlotta Tringali

 

 

Allucinazioni e spazi metamorfici in scala di ori

Recensione a Mansarda Circolando e a Baldassare Dewey Dell

Epifanie su schermi d’oro e spazi immersi in luci crepuscolari: in scena a VIE Scena Contemporanea Festival dal 9 all’ 11 ottobre – le compagnie Dewey Dell e Circolando regalano al pubblico immagini e suoni in grado di condurlo in territori tanto ignoti quanto familiari.

mansarda

Lo spazio del sogno, esperienza comune a tutti gli esseri umani, diversamente dalla realtà che ci circonda, considerata – a torto o ragione – materiale e palpabile, si presenta come un luogo ignoto per l’impossibilità di ricondurlo a leggi definibili, nonostante gli sforzi di studiosi e scienziati di individuarne tratti razionali e leggi universali. Eppure proprio questa sua caratteristica impalpabilità costituisce il punto di partenza del processo creativo di Mansarda, messo in scena a Ponte Alto dalla compagnia portoghese Circolando. Un viaggio che parte dal Teatro delle Passioni, dove un autobus conduce gli spettatori in un luogo lontano dal caos, seppur minimo, della città di Modena, in una sorta di epurazione dalla contingenza della vita quotidiana. Al pari di un sogno, nello spazio scenico si materializza un tempo distaccato, una dimensione dove le immagini in tutta la loro fisicità si sostituiscono alla parola in quanto veicolo comunicativo privilegiato. Corpi di oggetti e attori si inseriscono in un tempo sospeso tra il sogno e il ricordo, dove una luce surreale traccia i profili di quadri metafisici in continua metamorfosi e sette maschere ci accolgono in questo mondo buio e come guide sacre iniziano il nostro viaggio. Nessuna legge gravitazionale impedisce agli attori di sondare lo spazio scenico in tutte le sue dimensioni, rivelandosi anche abili performer: la struttura di una mansarda lignea, circondata da terra fresca dalla quale sorgono alberi e sgorga acqua, si configura come metafora della ricerca dell’uomo di uno spazio che lo possa accogliere e con il quale interagire. Un estremo rispetto reciproco caratterizza la relazione tra uomo e ambiente: nessun protagonista domina la scena, ogni corpo si presenta come un elemento essenziale per dar vita ad un sogno ad occhi aperti, in un tempo chiuso, limitato, dal quale le stesse maschere ci risvegliano. Un sogno forse troppo lungo per permettere ad ogni immagine di fissarsi con la stessa potenza e incisività nella mente dello spettatore.

Abbandonando il tempo onirico e dilatato dello spettacolo della compagnia portoghese, Baldassarre dura il tempo di un’allucinazione collettiva. In una stanza dell’ex-ospedale Sant’Agostino, per opera dei Dewey Dell, la mitica figura del re magio che rese omaggio a Gesù Cristo il giorno della sua nascita si manifesta nella sua natura mistica, ancestrale e celeste: una danza sciamanica, a tratti primitiva, ci riporta ad una dimensione religiosa ormai persa nella società contemporanea. Quattro minuti sono sufficienti per recuperare un contatto con il divino, intimo, personale e sconvolgente quanto può esserlo l’apparizione di una figura priva di tratti fisici umani: una sfera superiore non regolata da leggi a cui sottostare, ma uno spazio in cui l’ignoto si manifesta a noi in una contingenza accattivante e inquietante nello stesso tempo. Al pari della definizione data dalle scienze fisiche, il corpo nero si presenta come un oggetto che, assorbendo tutta la radiazione elettromagnetica incidente e per il principio di conservazione dell’energia, irradia tutta la quantità di energia assorbita: non una sagoma disegnata su un fondo dorato, ma un concentrato di energia che genera campi energetici tanto intensi da invadere lo spazio circostante, liberati da una danza ipnotica su una musica che nasce dalla sintesi di ritmi tribali e suoni elettronici. Dalla mano del re, la fede in qualcosa di Superiore/Altro rispetto al mondo umano ci investe senza bisogno di contatto fisico. Tutto rimane impermeabile al mondo esterno. E qualcosa si risveglia nel nostro Io più profondo.

Visto a VIE – Scena Contemporanea Festival, Modena

Giulia Tirelli

Borkman risuona ancora per le strade d’Europa

Recensione a John Gabriel BorkmanThomas Ostermeier

John Gabriel Borkman_

La densità della parola di Henrik Ibsen è pienamente intercettata nella struttura e nel ritmo dall’allestimento di Thomas Ostermeier, in cui spiccano celebri attori tedeschi fra cui Angela Winkler e Josef Bierbichler. Tanto nel testo, quanto nello spettacolo, è la parola a creare personaggi e ambienti, a stabilire relazioni: mai evocativa né fluida, si presenta in scena in tutta la sua solidità, protagonista assoluta della vicenda. Di più, la rarefazione delle azioni, i movimenti minimali e il grande spazio in cui si muove il testo, creano una corrispondenza duplice fra la scrittura di Ibsen e il lavoro del regista tedesco:  il carattere “espositivo” di questo allestimento si può considerare anche come una presa di posizione nettissima nei confronti della vicenda rappresentata. La scena svuotata, i movimenti ridotti all’osso, la fissità espressiva, il temperamento “esecutivo” dei personaggi, danno luogo proprio a quello di cui i Borkman hanno più paura, cioè il fatto di essere mostrati. Intrappolati fra le mura di casa e quelle, ben più invalicabili, della loro mente, un po’ per obbligo e un po’ per scelta, i Borkman affrontano una sorta di esilio, da quando è uscito di prigione John Gabriel, ex banchiere condannato per una truffa che ha provocato il tracollo dei suoi clienti. Gunhild, sua moglie, e la sorella Ella, che un tempo si contesero l’amore per l’uomo, ora si trovano a lottare per quello di Erhart, figlio dei Borkman. La vergogna e l’ossessione di rivalsa sono la danza di morte – anche suonata al pianoforte, a un certo punto – che coinvolge tutti e tre i personaggi: le sorelle sorprese da una mania quasi edipica per il figlio-nipote, John Gabriel esasperato nella possibilità di un riscatto sociale. Ed è proprio contro tutto questo che si muove il raffinato allestimento di Ostermeier, esponendo in una regia praticamente “esecutiva” le debolezze dei suoi protagonisti, in una dilatazione verbale impegnativa (che va riaddomesticata, dopo tanti sketch mordiefuggi cinematografici e televisivi) e in un delicatissimo lavoro sulla modulazione delle distanze fra i personaggi.

Il ritorno sistematico del regista tedesco, affermatosi giovanissimo fra i maestri del teatro internazionale, alla drammaturgia ibseniana può essere indice di un pericoloso avvicinamento del tutto attuale a quella società dedita rovinosamente all’apparenza, ritratta dall’autore norvegese quasi centocinquant’anni fa. Lo spettacolo è immerso in arcipelaghi di nuvole spesse, quasi nebbie solide, sempre sullo sfondo e che, di frequente, invadono la scena per arrivare, addirittura, a divorare le prime file della platea. È un’inconsistenza minacciosa che mette in relazione la borghesia delirante di fine Ottocento con gli eccessi attuali, ed è davvero inquietante, infine, uscire dal teatro con un dubbio che confonde spettacolo e realtà. Ostermeier, in tutta la sua cura per la parola ibseniana, ha disegnato un Borkman sospeso fra un senso di umanità che è possibile comprendere (e, forse, invidiare) e i crimini – sociali, personali, ideali – ingiustificabili che, mano a mano, emergono nello sviluppo della vicenda, in una spirale di violenza ed egoismo che sembra inarrestabile e si concluderà solo con la sua morte. Viene da interrogarsi sulla possibilità che il protagonista dello spettacolo, per la maggior parte del tempo fuori scena, sia davvero un criminale da denunciare o un piccolo uomo coraggioso che ha tentato la fortuna. Immedesimazione e critica, comprensione e riscatto: un dondolarsi atroce e senza risoluzione fra gli opposti (e tutto il grigio che vi esiste in mezzo) è la provocazione di questo spettacolo che, spostando continuamente il limite del senso di giustizia, mostra come una certa Totentanz tutta occidentale fra denaro, delirio di onnipotenza e vocazione distruttiva possa continuare, dopo più di un secolo, a risuonare con forza per le strade d’Europa e non solo.

Visto a VIE – Scena Contemporanea Festival, Modena

Roberta Ferraresi